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Dark Pattern: tutto quello che (non) vedi

Inutile negare che gran parte della nostra vita si svolge ormai su internet: lavoriamo e programmiamo le nostre vacanze, impariamo a cucinare e, addirittura, troviamo l’amore.

Tutto on line.

Il denominatore comune di tutte queste attività?  La comunicazione ad altri dei nostri dati personali, tema sensibilissimo e spesso ancora sottovalutato dai “non addetti ai lavori”: in molti casi ad essere importante – e particolarmente delicata – non è tanto la comunicazione in sé dei propri dati, quanto l’esigenza di assicurare che essa avvenga in maniera consapevole e responsabile.

La questione passa inevitabilmente anche attraverso l’interfaccia grafica che ogni sito web o piattaforma decide di offrire, in quanto strumento capace di indirizzare fortemente l’utente nella definizione delle proprie scelte – e, talvolta, nell’esecuzione di azioni inconsapevoli – in materia di dati personali.

L’attenzione è quindi rivolta ai dark pattern.

Definizione e compatibilità con il GDPR

Per dark pattern, letteralmente – e a buona ragione – “percorso oscuro”, si intendono tutte quelle interfacce grafiche implementate dai siti web allo scopo di spingere l’utente a compiere azioni non desiderate (e potenzialmente dannose), o a seguire delle procedure così complesse da scoraggiarlo a prestare la giusta attenzione al controllo e alla protezione effettiva dei suoi dati personali.

Una “x” poco visibile, un percorso informativo lungo e tortuoso, frasi fuorvianti: ecco che – 9 volte su 10 – finiamo per cliccare su “accetta tutto” pur di proseguire nella nostra navigazione, accedere alle informazioni che ci interessano o vedere lo status o le stories di un amico o una persona di interesse.

Il paradosso, fondato su bias cognitivi ben studiati, è che l’utente si sente perfettamente “padrone” delle proprie scelte, nonostante in realtà sia stato a tutti gli effetti vittima di una manipolazione volta a fargli prendere esattamente quella specifica, “autonoma” decisione.

Ma può essere questo un consenso validamente prestato?

La valutazione sulla compatibilità di tali pratiche col GDPR passa necessariamente attraverso un’attenta analisi dei principi dettati in materia dalla normativa.

L’art. 4, paragrafo 11 GDPR ci fornisce una definizione di consenso dell’interessato come “qualsiasi manifestazione di volontà libera, specifica, informata e inequivocabile dell’interessato, con la quale lo stesso manifesta il proprio assenso, mediante dichiarazione o azione positiva inequivocabile, che i dati personali che lo riguardano siano oggetto di trattamento”.

Perché un consenso possa dirsi libero, specifico, informato e inequivocabile è chiaramente necessario che il titolare del trattamento si sia lasciato innanzitutto ispirare dai principi generali sanciti dall’art. 5 GDPR, primo fra tutti il principio di liceità, correttezza e trasparenza.

Solamente mediante una comunicazione chiara e trasparente, infatti, le informazioni relative al trattamento risulteranno accessibili e facilmente comprensibili per l’utente, così da consentirgli di prendere decisioni consapevoli in ordine alla protezione dei suoi dati personali.

Particolarmente rilevante è anche il concetto di privacy by design, consacrato nell’art. 25 GDPR, secondo il quale l’attenzione alla protezione dei dati da parte del Titolare del trattamento deve essere integrata in ogni fase del ciclo di vita della tecnologia, partendo già dalla fase di progettazione del prodotto attraverso la predisposizione di misure tecniche ed organizzative adeguate – quali ad esempio la minimizzazione dei dati – e l’integrazione nel trattamento di tutte le garanzie necessarie al fine di soddisfare i requisiti del GDPR.

Le Linee Guida EDPB

Le recenti Linee Guida emanate dallo European Data Protection Board (“EDPB”) – al momento solo in lingua inglese, e rese disponibili per consultazione pubblica sino al 2 maggio prossimo – ci forniscono una elencazione dettagliata di tutti i diversi tipi di dark pattern, raggruppati in sei macrocategorie:

  1. Overloading: gli utenti vengono sommersi da una grande quantità di informazioni, opzioni e richieste al fine di spingerli a fornire più dati personali di quelli effettivamente necessari;
  2. Skipping: l’interfaccia grafico del sito è strutturato in modo tale che l’utente non presti la giusta attenzione alla protezione dei propri dati personali;
  3. Stirring: viene fatta leva sull’emotività dell’utente per condizionarne le scelte, oppure si ricorre ai cd. visual nudges, strumenti cioè in grado di alterare i comportamenti delle persone senza proibire però la loro scelta di altre opzioni (è questo il caso della “x”: c’è, ma è difficilissima da trovare);
  4. Hindering: viene posto un ostacolo nel processo di informazione o gestione dei dati personali, attraverso azioni e procedure complicate o impossibili da portare a termine;
  5. Fickle: il design dell’interfaccia risulta poco chiaro, diventando così arduo per l’utente navigare tra i differenti strumenti di controllo dei dati;
  6. Left in the dark: l’interfaccia è strutturato in modo tale da nascondere le informazioni utili e gli strumenti di controllo o da lasciare l’utente incerto sulle concrete modalità di esercizio dei propri diritti.

Il caso Google

È proprio degli ultimi giorni la notizia per cui l’Associazione per la protezione dei consumatori (Consumer Advice Center) della Renania Settentrionale-Vestfalia ha annunciato di aver avviato una causa contro Google.

Le motivazioni riguardano l’uso da parte del colosso informatico di cookie banner strutturati in maniera tale da rendere oltremodo gravoso il rifiuto dei cookies da parte degli utenti nel corso della loro navigazione, in aperto contrasto dunque tanto con la normativa tedesca quanto con quella europea, non solo relativa al GDPR ma anche alla c.d. Direttiva ePrivacy di cui è in discussione, allo stato, un aggiornamento tramite lo strumento (come per il GDPR) del “Regolamento”.

Mentre per l’accettazione dei cookies basta un semplice click, insomma, per il rifiuto l’utente si trova costretto a dover deselezionare manualmente tre categorie di cookies, prima che Google gli consenta di procedere alle sue ricerche.

In proposito, anche l’Autorità Garante di Amburgo (Germania) ha recentemente assunto la medesima posizione, sia in riferimento al banner del motore di ricerca che a quello della piattaforma di video streaming YouTube, ponendosi nel solco di altre precedenti decisioni – e sanzioni salatissime – in materia, tra cui vanno ricordate soprattutto quelle erogate dal CNIL (Autorità francese) a inizio anno proprio contro Google oltre che verso Facebook.

Best practices: come disegnare un’interfaccia utente rispettosa della normativa

Di seguito riportiamo alcune delle raccomandazioni contenute nelle Linee Guida EDPB 3/2022 per strutturare le interfacce web (di siti e piattaforme) in maniera conforme a quanto previsto dalla normativa europea.

Per quanto riguarda la privacy policy:

  • aggiungere link ipertestuali diretti che reindirizzino gli utenti alle parti più importanti della privacy policy (la quale dovrebbe essere il più possibile chiara e sintetica);
  • consentire ad esempio mediante menù a tendina una overview della policy, in modo che gli utenti siano in grado di trovare facilmente la sezione di loro interesse;
  • fornire sempre, in caso di uso di termini tecnici o di linguaggio non comune, definizioni comprensibili;
  • in aggiunta alle informazioni obbligatorie, fare degli esempi per rendere i concetti più “tangibili” per gli utenti;
  • indicare espressamente e chiaramente l’Autorità Garante competente, aggiungendo al sito un link alla pagina ufficiale per eventuali lamentele;
  • se la privacy policy viene modificata, rendere accessibile di volta in volta la/le precedente/i versione/i.

Con riferimento invece alle meccaniche di relazione con gli utenti:

  • prevedere un sistema di iscrizione chiaro e semplice;
  • fornire un pannello utente che permetta una selezione immediata delle preferenze in materia privacy;
  • prevedere meccanismi di cancellazione dell’utente diretti e immediati, che comunichino le opzioni disponibili (sospensione, cancellazione, ecc.) e spieghino cosa avverrà dei dati in seguito.

In ultimo, come già anticipato, la parte finale delle Linee Guida EDPB (sez. IV) scende nei dettagli delle pratiche da non seguire, a pena di violare i principi di accountability, trasparenza e data protection by design che possono poi comportare, a carico del Titolare del trattamento (quindi del sito web o della piattaforma) sanzioni economiche (anche pesanti) e il blocco dei dati ottenuti in violazione della normativa applicabile.

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Photo by Dan Asaki on Unsplash