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Il prossimo “Privacy Shield”: avvenimenti, criticità e possibilità aperte

Alla luce della novità di ieri, con il Garante italiano che ha – allineandosi ad altri “colleghi” europei – sanzionato l’uso di Google Analytics per il trasferimento di dati verso gli USA, ritenuto non conforme a GDPR, riteniamo molto interessante tornare sul tema degli accordi transatlantici USA-UE per (provare a) rendere lecita l’attività che coinvolge fornitori americani.

Gli avvenimenti principali: Max Schrems e la Corte di Giustizia UE

Il “Privacy Shield”, che permetteva il trasferimento di dati personali fra Unione europea e gli Stati Uniti, era un meccanismo approvato dall’Unione europea in seguito all’abolizione – sempre per mano della Corte di Giustizia UE – del suo predecessore, il “EU-USA Safe Harbour”.

Entrambi gli accordi definivano gli Stati Uniti come un Paese verso cui è possibile effettuare, secondo certe condizioni, un trasferimento dei dati di cittadini europei e/o persone comunque soggette alla normativa UE: ciò fino all’incontro-scontro con Max Schrems, giovane avvocato e attivista austriaco, che da anni sfida le politiche di trasferimento di dati verso gli USA attuate, in particolare, nell’ambito del social network “Facebook”.

Nel 2011, Max Schrems, dopo aver assistito a una lezione, in un’università della California, tenuta dal privacy lawyer di Facebook, si è reso conto che le politiche del social network non tutelavano la privacy degli utenti, e ha scaricato una copia da Facebook dei dati che lo riguardavano, in possesso della piattaforma. L’allora studente di legge ha trovato oltre 1.200 pagine di informazioni sul suo conto, contenenti anche tutti i messaggi scambiati sulla piattaforma, compresi quelli cancellati.

È iniziata così la battaglia legale, alla quale si sono aggiunte, in modo decisivo, nel 2013, le rilevazioni di Edward Snowden, ex tecnico della CIA, secondo cui anche il governo degli Stati Uniti poteva avere accesso ai dati di Facebook, e non solo i gestori del social.

La prima vittoria di Schrems è del 2015, quando la Commissione europea ha smantellato la struttura del Safe Harbour. Ma l’attivista ha proseguito ancora, e nel luglio 2020 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha emesso una nuova sentenza che ha abbattuto anche il Privacy Shield.

Max Schrems, nel frattempo, ha anche fondato una organizzazione no profit (“NOYB”, “None Of Your business”).

Cos’è rimasto in piedi dell’impianto legislativo per il trasferimento dei dati personali europei negli Stati Uniti?

La Corte di Giustizia, in relazione agli artt. 7 8 e 47 della carta di Nizza, in materia di protezione dei dati, su è espressa in merito alla normativa che imponeva a Facebook di mettere a disposizione delle agenzie di Intelligence americane i dati personali trasferiti, o quelli che Facebook raccoglieva dagli utenti.

In particolare, l’art 702 del FISA (“Foreign Intelligence Surveillance Act”) consente al Procuratore e al Direttore dell’Intelligence americana di autorizzare congiuntamente, previa approvazione della Corte ad hoc FISA, la sorveglianza di specifici utenti e dati mediante programmi di sorveglianza come PRISM e UPSTREAM. La Corte di Giustizia UE ha valutato anche la portata dell’Executive Order n. 12333, che consente alla NSA (“National Security Agency”) di accedere ai cavi sottomarini posti sotto l’atlantico (“dorsali di internet”) e di raggiungere i dati personali prima che essi arrivino negli Stati Uniti.

Il diritto degli Stati Uniti, secondo la sentenza della Corte di Giustizia, non prevede garanzie e limitazioni sui dati personali rispetto alle ingerenze autorizzate dalla sua normativa nazionale, e non assicura una tutela giurisdizionale effettiva degli interessati contro queste ingerenze. Restano tecnicamente validi, comunque, dopo la sentenza della Corte, tutti gli strumenti alternativi alla decisione della commissione europea, in particolare le Clausole Contrattuali Standard (in versione 2021) e le norme vincolanti di impresa (“Binding Corporate Rules”), seppure queste ultime siano utili solo a grandi (e poche) multinazionali.

Sono strumenti che non possono essere adottati solo formalmente: è necessario infatti che il Titolare del trattamento svolga sempre una valutazione caso per caso, in modo da assicurare mediante misure di sicurezza e misure supplementari che la normativa statunitense non interferisca con la protezione dei dati personali garantita dal GDPR. Se, alla fine di questa valutazione, il Titolare ritiene che non vi siano ancora adeguate garanzie, deve sospendere o porre fine al trattamento di dati personali verso gli USA.

È possibile allora ipotizzare un nuovo Privacy Shield?

Prendendo le mosse da ragionamenti di carattere storico, dato che già il primo Safe Harbour che esisteva fra Unione europea e Stati Uniti venne dichiarato invalido dalla CGUE e successivamente si arrivò a un altro compromesso, potenzialmente si potrebbe giungere a un altro accordo.

Il rischio concreto è che, per conflitto di normative interne, ora non si riescano mai a raggiungere gli standard di sicurezza previsti dall’unione europea: ciò seppure, rispetto al passato, si stanno comunque compiendo dei notevoli passi avanti, grazie ai meccanismi di cooperazione fra le Autorità Garanti europee e con l’interlocuzione tra Commissione UE e governo USA.

Ad esempio, è stato pubblicata una nuova versione delle Clausole Contrattuali Standard, che rivedono un meccanismo di trasferimento dei dati rimasto un po’ “abbandonato” negli anni, in quanto ancora riferito alla Direttiva del 1995 anche dopo l’avvento del GDPR; anche la pubblicazione da parte dell’EDPB delle Linee guida sul Trasferimento internazionale dei dati personali ha rappresentato, a parere degli esperti, una preziosa fonte di indicazioni e istruzioni, anche tecniche, per limitare i rischi e adeguare i trattamenti che comportano trasferimenti.

Rimane certa, per ora, la necessità di adottare un approccio concreto e non teorico nel trasferimento dei dati personali, valutando caso per caso con adempimenti come un attento data mapping e una valutazione relativa al trasferimento dei dati (c.d. “TIA”) quali potrebbero essere i rischi derivanti dal trasferimento di dati personali extra UE, valutando anche le misure alternative o le misure tecniche per rendere il trattamento il più possibile rispettoso dei diritti e delle libertà degli interessati.

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Immagine di copertina grazie a NASA on Unsplash

Brexit e privacy: cosa è cambiato, cosa può ancora cambiare

Dopo un lungo e dibattuto iter, il 31 gennaio 2020 il Regno Unito ha definitivamente lasciato l’Unione Europea.

Da tale momento ha preso il via un periodo di transizione, cd. bridging mechanism, finalizzato a consentire (da un lato) il graduale adeguamento dell’ordinamento britannico alla nuova situazione e (dall’altro) una transizione ordinata dei rapporti economici, amministrativi e giuridici tra Unione Europea e United Kingdom.

Tra i vari hot topics che hanno caratterizzato il caso ed il processo di realizzazione della Brexit, importantissimo è indubbiamente quello relativo alla protezione dei dati personali dei cittadini europei e alla possibilità che questi vengano trasferiti verso Paesi terzi.

La questione, già di per sé rilevante essendosi concluso definitivamente il processo di uscita dall’Unione (il Regno Unito è oggi ufficialmente e a tutti gli effetti un Paese terzo), diventa ancora più delicata alla luce delle future riforme che il Governo di Londra ha dichiarato di voler attuare.

Evoluzione della normativa privacy tra UE e UK

Per meglio comprendere i termini della faccenda è necessario passare in rassegna l’evoluzione normativa che ha caratterizzato negli ultimi anni – dall’inizio del processo fino al completamento della Brexit – l’ordinamento giuridico britannico dal punto di vista della data protection.

Prima della rottura definitiva con l’UE, le fonti normative vigenti in Gran Bretagna in materia di protezione dei dati erano due: una di matrice europea, Regolamento 2016/679 (“GDPR”), e una interna, il Data Protection Act del 2018 (“DPA”).

Nel 2018 poi, con l’intento di gettare solide basi per il cambiamento, il Parlamento inglese ha emanato l’European Union (Withdrawal) Act con un duplice scopo: abrogare l’European Communities Act del 1972 (con cui il Regno Unito aderiva alle tre comunità europee della CEE, CECA ed Euratom), e fornire una base giuridica affinché il diritto nazionale derivato dall’UE e la legislazione europea direttamente applicabile-incorporati nel diritto interno britannico in virtù del medesimo atto- potessero essere modificati.

Risultato di tale operazione “sartoriale” è stata la nascita del cd. retained EU law: un diritto comunitario modellato “su misura” alle esigenze e prospettive di uno Stato che, pur rivendicando indipendenza rispetto alle istituzioni europee, continua entro certi limiti a rispettarle (è stato infatti previsto che il retained law venga pur sempre interpretato dai giudici interni alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea e dei principi fondamentali dell’Unione, in vigore prima dell’uscita definitiva dell’UK dall’Unione).

Un esempio di legislazione secondaria, emanata in virtù dell’European Union (Withdrawal) Act e capace di modificare il retained law, è rappresentato dal “Data Protection, Privacy and Electronic Communications (Amendments etc.) (EU Exit) Regulations, 2019 (DPPEC Regulations). Tale documento, a far data dal 1° gennaio 2021, ha modificato sia il DPA nazionale che il recepimento della normativa GDPR europea, creando così quello che oggi è conosciuto come ”UK GDPR”.

Brexit: cosa cambia in materia di trasferimento dei dati extra-UE

Il trasferimento dei dati verso Paesi terzi è oggetto apposita regolamentazione da parte del GDPR, regolamentazione – a questo punto –  applicabile a tutti gli effetti anche al Regno Unito.

I meccanismi previsti dal capo V (art. 44 e ss.) rispondono all’esigenza di assicurare alle persone fisiche coinvolte il medesimo livello di protezione offerto del Regolamento, e sono (in alternativa tra loro):

  • decisione di adeguatezza ex art. 45 GDPR: il trasferimento è ammissibile sulla base di una decisione di adeguatezza della Commissione Europea che stabilisca che il paese terzo garantisce una protezione adeguata (equivalente cioè a quella offerta dal GDPR stesso). I criteri utilizzati dalla Commissione per l’adozione della decisione sono vari, tra cui figurano lo stato di diritto del paese terzo e il suo rispetto nei confronti dei diritti fondamentali e delle libertà degli individui;
  • garanzie adeguate ex art. 46 GDPR: in mancanza di una decisione di adeguatezza, il titolare del trattamento può trasferire i dati verso un paese terzo soltanto nel caso in cui siano state fornite garanzie adeguate, a condizione che gli interessati dispongano di diritti azionabili e mezzi di ricorso effettivi. Esempio di tali garanzie sono le Standard Contractual Clauses (SCC) approvate dalla Commissione Europea secondo la procedura d’esame di cui all’art. 93 (e contenute nella loro versione più aggiornata nella Direttiva 2021/914);
  • norme vincolanti d’impresa, ex art. 47 GDPR, per i gruppi che le hanno stipulate con l’Autorità di controllo;
  • deroghe, ex art. 49 GDPR: nel caso in cui non dovessero risultare utilizzabili gli strumenti previsti dagli articoli precedenti, in via residuale il trasferimento può comunque essere lecito perché, a titolo esemplificativo, il soggetto interessato ha prestato espressamente il consenso o perché il trasferimento è necessario per l’esecuzione di un contratto.

Come extrema ratio – laddove non fossero applicabili le deroghe specificamente elencate – l’art. 49 stabilisce che il trasferimento è pur sempre lecito se fondato sulla deroga di carattere generale del trasferimento non ripetitivo per il perseguimento di interessi legittimi cogenti dell’esportazione dei dati su cui non prevalgano gli interessi e le libertà degli interessati. Non si tratta di semplici interessi legittimi del titolare ma di interessi essenziali, come ad esempio l’esigenza di proteggere la propria organizzazione o i propri sistemi da un danno grave ed immediato.

Per gestire la questione del trasferimento dei dati verso il Regno Unito, la Commissione Europea ha emanato due decisioni di adeguatezza, una relativa al GDPR e una relativa al LED (Law Enforcement Directive, 2016/680), entrambe facenti parte del più ampio TCA (Trade and Cooperation Agreement), l’accordo volto a regolare gli scambi commerciali UE-UK.

La peculiarità di tali decisioni è la previsione di una “sunset clause”, (un unicum nella storia delle decisioni ex art. 45 GDPR) che limita l’adeguatezza della decisione a quattro anni (la scadenza è prevista al 27 giugno 2025), riservando alla Commissione stessa il potere di monitorare e verificare attivamente l’assetto in materia di privacy garantito dal diritto britannico.

In altri termini l’Unione, pur non rinunciando aprioristicamente alla possibilità di “avere a che fare” con il Regno Unito, si riserva la possibilità di cambiare idea nel caso il cui dovessero cominciare ad essere attuate riforme in grado di minare quel grado di protezione adeguato che il GDPR intende tutelare e che richiede per legittimare il trasferimento dei dati.

La decisione della Commissione appare quanto mai saggia soprattutto alla luce del fatto che la Gran Bretagna sta vivendo un periodo di potenziale (e audace) cambiamento.

Possibili scenari

Tra le molte proposte di riforma in grado di allontanare Londra dalle posizioni europeiste – a titolo esemplificativo, estendere l’utilizzo del legittimo interesse come base giuridica e facilitare il trattamento dei dati da parte di enti pubblici e privati per finalità di interesse pubblico (tra cui anche la lotta al covid-19)- , la più preoccupante riguarda l’ampliamento della lista dei paesi ai quali il Regno Unito intende concedere l’adeguatezza per il trasferimento dei dati, dal momento che tra i nuovi stati figurerebbero anche gli Stati Uniti.

Una riforma in tal senso potrebbe seriamente minare la stabilità della decisione di adeguatezza emessa, con ricadute su due diversi ed egualmente importanti ambiti.

In primo luogo, un allontanamento della legislazione UK dai principi fondanti del GDPR porterebbe forzatamente a rendere più difficoltosi i trasferimenti “diretti” di dati tra Europa e Gran Bretagna, in quanto le tutele accordate dal Regolamento ai cittadini europei potrebbero venire meno al mutare dell’assetto dell’ordinamento inglese.

Non è solo la normativa specialistica in materia di data protection ad avere un impatto diretto sulla decisione di adeguatezza emessa dalla Commissione UE: le stesse tutele generali accordate ai cittadini dallo stato, e lo stesso Stato di diritto, potrebbero comportare una violazione frontale della privacy del singolo.

Si pensi, ad esempio, al tema degli ordini esecutivi diretti con cui le forze di polizia accedono ai dati, in potenziale violazione dei diritti costituzionalmente tutelati – almeno, nell’Unione Europea – di riservatezza e libertà.

Proprio in quest’ottica, ed alla luce della caduta del EU-US Privacy Shield (il sistema di autocertificazione “fatto fuori” dalla sentenza Schrems II), al fine del trasferimento dei dati verso gli Stati Uniti, ad oggi – per qualsiasi business operante in UE – non è più sufficiente il solo riferimento alle Clausole Contrattuali Tipo della Direttiva 2021/914, la cui struttura è stata ricalcata dall’International Data Transfert Agreement approvato dal Garante inglese (ICO).

Se davvero il Regno Unito dovesse aprire le porte ai liberi trasferimenti di dati verso gli Stati Uniti ad esempio mediante l’emissione di una autonoma decisione di adeguatezza, allora si presenterebbe un grosso problema, dal momento che potrebbe di fatto venire elusa la fase dei controlli – particolarmente rilevanti – oggi imposti dal GDPR e dalla sua interpretazione fissata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

L’eventuale revoca della decisione di adeguatezza comprometterebbe insomma, con tutta probabilità, il funzionamento dell’accordo sugli scambi commerciali (TCA) e aprirebbe una nuova frontiera nel settore dei trasferimenti internazionali per le aziende operanti in UE.

Gli occhi dell’Unione – e in particolare della Commissione – rimangono così puntati oltremanica in attesa degli sviluppi prospettati dal governo di Londra. E noi con loro.

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