Controlli “difensivi”: legittimo l’uso dei dati solo se il lavoratore è correttamente informato

Con recente pronuncia (n. 25732/2021, consultabile QUI), la Corte di Cassazione è intervenuta su un tema spinoso, che riguarda il difficile bilanciamento tra la tutela della sfera di riservatezza del lavoratore e la garanzia di protezione dei beni aziendali (in senso lato).

I fatti di causa

Una lavoratrice, dipendente di una Fondazione, veniva licenziata – per giusta causa – per aver navigato continuativamente in internet a fini privati durante l’orario lavorativo, in particolare facendo accesso ad alcuni siti non sicuri fonte di diffusione di un virus nella rete aziendale, con successiva compromissione di vari dischi di rete ed files (c.d. data breach).

Dopo aver visto dapprima accolta la propria domanda di reintegrazione in primo grado, e successivamente rigettata la medesima domanda in sede di appello, la lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione denunciando la violazione e la falsa applicazione, per ciò che qui rileva, dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e del Codice Privacy (n.b. i fatti si sono svolti in epoca antecedente sia all’entrata in vigore del GDPR, sia alla modifica dell’art. 4 St. Lav per opera del Jobs Act).

La tesi, in sostanza, poggiava sulla contestazione della decisione in appello di aver ritenuto utilizzabili, a fini disciplinari, le informazioni acquisite in violazione dei diritti, in particolare, di informativa, contenuti nell’allora vigente Codice Privacy (D. Lgs. 196/2003).

In effetti, l’Autorità Garante, investita della questione, aveva confermato la violazione degli obblighi di informativa e l’eccedenza del trattamento rispetto alle finalità ed aveva intimato alla Fondazione di astenersi da ulteriori trattamenti.

Veniva poi contestata la mancata tipizzazione del comportamento imputato alla lavoratrice tra gli illeciti disciplinari e tra le regole ed i principi del Codice Etico aziendale.

La disciplina dei controlli sui lavoratori

La vicenda in oggetto si concentra sull’ambito applicativo dei controlli sui lavoratori, la cui disciplina generale è dettata dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300 del 1970) nonché dal GDPR e dalle linee guida e pronunce sul tema dell’Autorità Garante.

L’art. 4 St. Lav. citato, in particolare, ha subito una radicale riforma nel 2015: l’originaria versione dello stesso, applicabile ratione temporis alla vicenda in oggetto, prevedeva un generale divieto di uso di strumenti di controllo a distanza.

Nel corso degli anni però la giurisprudenza, a tutela del patrimonio e dell’immagine aziendale, aveva determinato che i c.d. “controlli difensivi”, cioè i controlli effettuati dopo l’attuazione del comportamento illecito, e quindi dopo l’insorgenza del sospetto in merito al comportamento scorretto, non fossero soggetti a tale divieto, pur nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza.

La riforma dell’art. 4 St. Lav. ha fatto cadere il precedente divieto, prevedendo la possibilità per il datore di lavoro di effettuare controlli sui lavoratori nel rispetto di determinate modalità ed a condizioni tassative.

Tuttavia, ai fini dell’utilizzabilità dei dati raccolti (anche a scopo disciplinare), è condizione necessaria, a prescindere dallo strumento di controllo utilizzato, fornire al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli.

La decisione della Corte

La Corte ha accolto il ricorso della lavoratrice: attraverso un’approfondita disamina giuridica sull’ambito di applicazione dei controlli difensivi pre e post riforma, le doglianze della lavoratrice sono state ritenute fondate in quanto, in sentenza: (i) non era stato verificato se i dati di navigazione fossero stati raccolti prima o dopo l’insorgere del fondato sospetto (ii) non era stato valutato il corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione dei beni aziendali rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e riservatezza del lavoratore.

Nello specifico, viene sottolineato che il datore di lavoro potrebbe, in difetto di adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, nonché senza il rispetto della normativa sulla privacy, acquisire e conservare per lungo tempo ed ininterrottamente ogni tipologia di dato e, poi, invocare la natura mirata e successiva del controllo.

A parere della Suprema Corte, la Corte d’Appello aveva anche omesso di verificare l’utilizzabilità dei dati raccolti ai fini disciplinari, sempre in mancanza di adeguata informativa.

La sentenza in oggetto, nel confermare che sono consentiti i controlli, anche tecnologici, posti in essere dal datore di lavoro e finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti in presenza di un fondato sospetto, ribadisce l’importanza di un corretto bilanciamento tra:

  • da un lato, le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, e
  • dall’altro, le imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, per cui il controllo mirato sul singolo lavoratore deve riguardare dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto.

In mancanza delle condizioni suddette, i dati raccolti non possono essere utilizzati ai fini disciplinari in conformità a quanto statuito dall’art. 4 St. Lav., in particolare dai commi 2 e 3.

Un’informativa adeguata

L’utilizzabilità delle informazioni e dei dati acquisiti, a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, anche disciplinari, dipende, in sostanza, dall’adeguatezza dell’informativa fornita.

Ma in cosa consiste un’informativa “adeguata”?

Prima di tutto, l’informativa deve – oggi – riportare tutti gli elementi previsti dall’art. 13 GDPR, e non limitarsi a fare generici riferimenti a finalità, relative basi giuridiche e tempi di conservazione, ma essere specifica e ben dettagliata, oltre che leggibile, chiara e comprensibile nella sua formulazione grafica e testuale.

Per quanto riguarda la navigazione in internet, fermo restando il divieto di controllo indiscriminato della navigazione (v. Newsletter Garante Privacy 22.06.2021: l’episodio riguarda il Comune di Bolzano, sanzionato per Euro 84.000,00), la raccolta dei dati di navigazione è legittima e può essere utilizzata in funzione disciplinare contro il lavoratore, purché egli ne sia informato e quindi consapevole dell’effettuazione di controlli, delle modalità degli stessi, dei comportamenti consentiti o meno e delle conseguenze disciplinari e/o penali correlate.

L’informativa dovrà essere coordinata e coerente con il disciplinare interno, il quale deve essere redatto in modo chiaro e adeguatamente pubblicizzato.

Si segnala che il Garante ha emanato, già nel 2007, delle linee guida sull’utilizzo della posta elettronica e di internet nel rapporto di lavoro (consultabile QUI) cui è possibile fare riferimento.

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