Il diritto all’immagine: tutela e protezione su più fronti

L’immagine personale è senza dubbio considerata da ognuno di noi un diritto intimo, primario ed essenziale.

Forse, più di ogni altro diritto dell’essere umano.

La nostra immagine riflette al mondo esterno chi siamo, da dove proveniamo, se siamo tristi oppure felici. Ha la capacità di trasmettere così tanto di noi stessi agli altri che, inevitabilmente, ci fa sentire la necessità di preservare la sua riservatezza e controllarne la sua condivisione: vogliamo cioè essere noi a decidere se e quando diffondere la nostra immagine a terzi.

Negli ultimi anni, grazie all’evoluzione tecnologica e – soprattutto – all’avvento dei social network, abbiamo assistito ad una condivisione estremamente rapida di immagini personali veicolate a mezzo di video e fotografie.

Scattiamo foto e pubblichiamo contenuti: la vacanza con gli amici, la cena coi colleghi, il pranzo della domenica in famiglia.

La rapidità di approvvigionamento e di condivisione di immagini (personali) ci ha, tuttavia, allontanati da un concetto quanto mai essenziale: la legittimazione all’uso dell’immagine altrui.

La normativa di riferimento: dalla legge sul diritto d’autore al GDPR

Il diritto e la relativa tutela dell’immagine personale sono ben radicati nel nostro ordinamento, trovando le loro fonti tanto nel Codice civile quanto nella legge sul diritto d’autore, sfociando addirittura nella stessa Costituzione per via del rimando operato dall’art. 2 ai diritti inviolabili.

Con l’avvento della normativa privacy nazionale e, in ultimo, della regolamentazione europea del GDPR, la tutela dell’immagine è andata sempre più consolidandosi, tanto che pare importantissimo chiedersi: entro che limiti è possibile pubblicare e diffondere l’immagine altrui?

A livello cronologico, la prima fonte normativa ad occuparsi del tema è stata la legge 22 aprile 1941, n. 633 – cd. Legge sul diritto d’autore – che all’art. 96 stabilisce che “il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente”.

Con l’art. 97 il legislatore ha infatti voluto fissare una deroga alla regola generale dell’art. 96, stabilendo i casi in cui si può lecitamente diffondere l’immagine altrui prescindendo dal consenso dell’interessato.

Per il legislatore, dunque, non occorre il consenso della persona ritratta quando “la riproduzione dell’immagine è giustificata (i) dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, (ii) da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o (iii) quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”.

Più di recente, con il Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR) viene introdotta in Italia una nuova normativa in materia di protezione dei dati personali, normativa che indubbiamente si riflette anche sulla protezione dell’immagine personale in quanto dato personale.

Secondo la definizione offerta dall’art. 4, n.1 GDPR, dato personale è “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile”, considerandosi identificabile la persona fisica che “può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale”.

L’immagine di ognuno di noi è un contenitore composito di dati personali, anche particolari (cioè sensibili). L’immagine personale trasmette infatti al mondo il genere, l’età, l’etnia di ognuno di noi. Addirittura, la presenza di qualche malattia. 

A mente dell’art. 9 GDPR, non è possibile – in via generale – trattare dati personali particolari salvo che, tra gli altri, in caso di consenso esplicito dell’interessato.

Entrambe le normative prevedono dunque, entro certi limiti, degli strumenti “abilitanti”, che consentono di diffondere in maniera legale l’immagine personale di un terzo: strumenti che si risolvono nella liberatoria e nella informativa privacy.

Informativa o liberatoria?

A fonte delle due normative maggiormente incisive in materia – legge sul diritto d’autore da un lato e GDPR dall’altro – è utile capire quale strumento sia, in concreto, più efficace.

L’informativa privacy è un documento all’interno del quale un soggetto, in qualità di titolare del trattamento, comunica all’interessato una serie informazioni riguardanti il trattamento dei propri dati personali.

Gli articoli 13 e 14 GDPR illustrano il contenuto tipico di una informativa, per cui il soggetto che intenda utilizzare l’immagine altrui dovrà comunicare – tra le altre cose– le finalità e le basi giuridiche del trattamento, il tempo di conservazione dei dati trattati, l’esistenza di una serie di diritti, tra cui è ricompreso anche il diritto di revocare il consenso.

In accordo con quanto stabilito dall’art. 7 GDPR, infatti, “l’interessato ha il diritto di revocare il proprio consenso in qualsiasi momento”.

Sebbene la revoca del consenso non pregiudichi la liceità dei trattamenti basati sul consenso già effettuati – avendo pertanto una efficacia ex nunc – impedirebbe di fatto l’uso futuro dell’immagine.

La liberatoria è, al contrario, un accordo bilaterale – un contratto! – in virtù del quale il soggetto ritratto in un documento video-fotografico presta il suo consenso affinché la propria immagine venga divulgata.

A differenza dell’informativa, la liberatoria non ha un vero e proprio contenuto tipico; tuttavia – per essere efficace anche dal punto di vista della tutela del predisponente – deve inevitabilmente informare il soggetto ritratto sullo scopo per il quale l’immagine viene utilizzata.

Una volta ottenuto un assenso con la firma della liberatoria, il predisponente sarà tutelato da eventuali future opposizioni all’uso.

Nell’ottica di una maggior tutela del soggetto che intenda usare e divulgare l’altrui immagine – fermo in ogni caso l’obbligo di fornire una adeguata informativa privacy – è sempre preferibile predisporre una liberatoria in modo tale da assicurarsi l’uso indisturbato dell’immagine in oggetto.

La tutela dell’immagine del lavoratore

Fatte queste premesse generali, proviamo in questa sede a rispondere ad una (importantissima) domanda: come utilizzare l’immagine di un dipendente dell’azienda?

La questione è particolarmente complicata: quanto può davvero definirsi libero il consenso – o meglio, l’ipotetico dissenso – di un lavoratore dipendente?

Il potere contrattuale delle parti, indiscutibilmente sbilanciato a favore del datore di lavoro, potrebbe comportare la spiacevole situazione per cui un soggetto possa sentirsi, nei fatti, “obbligato” a prestare il proprio consenso perché vincolato dal contratto di lavoro (per non parlare del caso limite in cui sia proprio il datore di lavoro a estorcere il consenso).

La liberatoria, risolvendosi in una vera e propria scrittura privata tra le parti, ha lo scopo di mettere nero su bianco le condizioni dell’accordo che, una volta sottoscritto, ha tra le parti valore di contratto.

È dunque la liberatoria il contratto al quale fare più correttamente riferimento nella informativa privacy, contratto che – prescindendo dal consenso (che nello specifico caso non sarebbe mai davvero “liberamente prestato”, come richiede la normativa vigente in materia di trattamento dei dati personali) consente un uso della immagine del lavoratore priva dei rischi connessi ad una eventuale revoca del consenso stesso.

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Immagine di copertina di Steve Gale grazie a Unsplash

La Corte di Giustizia UE sui contenuti online provenienti da altri siti Web

In tutti i casi di “incorporazione” (o “transclusion” per utilizzare il termine adottato dalla CGUE) all’interno della propria pagina internet di una risorsa – ovvero, di un contenuto – proveniente da un altro sito web l’elemento incorporato appare nella pagina internet, senza rimandare al sito di provenienza.

Le ragioni alla base dell’uso di questa incorporazione possono essere molteplici: la necessità di presentare all’utente funzioni di altre piattaforme o la fornitura di altri tipi di servizi, come la riproduzione di musica, la pubblicazione post di social media, ecc.

Un altro motivo, ancora, può essere legato agli aggiornamenti contenuti all’interno di un sito o alla necessità di porre immagini provenienti da altre fonti all’interno della propria pagina.

Queste situazioni hanno sfumature diverse tra loro a livello tecnico-informatico, ma possono essere osservate sotto lo stesso punto di vista normativo e giurisprudenziale.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea

La Corte di Giustizia, Sez. II, nella sentenza del 7 agosto 2018 n. 161 ha previsto che la messa in rete di un contenuto all’interno di un sito internet, precedentemente pubblicato su un altro sito internet, si qualifica come messa a disposizione e perciò come atto di comunicazione al pubblico.

Per questa ragione, la diffusione del contenuto diventa illecita se non autorizzata dal titolare del diritto in questione.

La Corte è arrivata a queste conclusioni distinguendo nettamente i casi in cui:

  • da un lato, il titolare dei diritti conserva una possibilità di controllo sull’opera, in quanto la sua eventuale rimozione dal sito bersaglio rende il link inefficace,
  • dall’altro, in contrasto con quanto previsto dall’art. 3 della Direttiva 2001/29/CE, l’autore del sito che “incorpora” esclude tale possibilità, in violazione dei diritti esclusivi di comunicazione e messa a disposizione del pubblico.

La Direttiva sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione prevede infatti che sia qualificata come comunicazione al pubblico il fatto di incorporare, mediante la tecnica del framing, in una pagina Internet di un terzo, opere protette dal diritto d’autore e messe a disposizione del pubblico in libero accesso con l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore su un altro sito Internet, qualora tale incorporazione eluda misure di protezione contro il framing adottate o imposte da tale titolare.

La giurisprudenza italiana si è orientata in modo analogo, affermando che si è in presenza di violazione dell’art. 2598, n. 1 e 2 del Codice civile quando l’utente che si colleghi ad un determinato sito e, su di esso, utilizzi un link, venga collegato alla pagina di un altro sito con contenuti informativi, ma detta pagina venga visualizzata all’interno della cornice (“frame”) del primo sito e, pertanto, i segni distintivi e gli avvisi pubblicitari, posti su questo, continuino a circondare la pagina “agganciata”.

I requisiti per l’incorporazione

I contenuti che si trovano su altri siti possono essere, dunque, incorporati lecitamente solo in presenza di due requisiti.

In primo luogo, che l’utente che sta navigando sulla nostra pagina si renda conto che il contenuto incorporato appartiene a terzi.

Secondariamente, che vengano utilizzati solo contenuti di siti o piattaforme che non prevedano a monte un accesso a pagamento o contenuti che, presi singolarmente, non abbiano nessun tipo di restrizione circa l’incorporamento in domini diversi da quello di origine.

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Immagine di copertina di Febiyan grazie a Unsplash