L’Organismo di Vigilanza come supervisore del whistleblowing

La questione che si propone nell’articolo è se l’Organismo di Vigilanza possa essere la figura più adeguata a ricevere e gestire le segnalazioni relative a illeciti commessi dai soggetti di cui all’art. 5 co. 1 del Decreto 231, o a violazioni del Modello di organizzazione e gestione di una società (“whistleblowing”).

La questione è aperta e dibattuta, anche e soprattutto a causa della lunga vicenda relativa al recepimento nell’ordinamento italiano della Direttiva UE 2019/1937 (“Direttiva whistleblowing”), che impone agli Stati membri dell’Unione europea di conformarsi entro il 17 dicembre 2021 – termine che l’Italia non ha ancora rispettato, nonostante la prossima scadenza del 10 dicembre 2022 della legge di delegazione europea (Legge n. 127 del 4 agosto 2022).

L’assenza di poteri gestori dell’Organismo di Vigilanza

L’Organismo di Vigilanza, per il ruolo che svolge e le caratteristiche che gli sono attribuite dalla legge, è autonomo, indipendente e ha l’onere di vigilare sul funzionamento, sul rispetto e sull’aggiornamento del Modello di organizzazione e gestione della società.

Dal punto di vista della struttura della società, la dottrina ha nel tempo riportato che l’Organismo di Vigilanza non costituisce un organo della società, e non ha una funzione di garanzia degli interessi collettivi, o di terzi soggetti; esso è piuttosto un suo “ufficio”, la cui presenza costituisce una modalità organizzativa interna.

Il Decreto 231, inoltre, non attribuisce all’Organismo di Vigilanza poteri di intervento impeditivi nei confronti di comportamenti irregolari o illeciti, né poteri disciplinari e sanzionatori diretti, che richiederebbero un’autorità e una signoria sui comportamenti altrui all’interno e all’esterno della società.

La presenza in azienda di membri dell’Organismo di Vigilanza non risulta funzionale ad una gestione dell’ente e non consente ai componenti di intromettersi nelle scelte dell’imprenditore circa le modalità di conduzione dell’impresa.

Anche il Garante Privacy ha segnalato, nel suo parere sulla qualificazione soggettiva ai fini privacy degli Organismi di Vigilanza previsti dall’art. 6, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 del 12 maggio 2020, che l’Organismo di Vigilanza, pur avendo funzioni di controllo, non è dotato di alcun potere impeditivo nei confronti degli eventuali autori del reato, e non ha obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria in relazione agli illeciti di cui viene a conoscenza a causa e nell’esercizio delle sue funzioni.

Per la giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen. Sez. VI n. 23401 del 11/11/2021) l’Organismo di vigilanza non può avere connotazioni di tipo gestorio, che ne minerebbero l’autonomia, ma ad esso spettano compiti di controllo sistemico continuativo sulle regole cautelari predisposte e sul loro rispetto nell’ambito del modello organizzativo di cui la società si è dotata.

Il whistleblowing non deve essere gestito, ma controllato dall’Organismo di Vigilanza

Il comma 2-bis dell’art. 6 del Decreto 231 prevede che i Modelli di Organizzazione e Gestione devono prevedere uno o più canali che consentano ai soggetti in posizioni apicali e a coloro che sono sottoposti alla loro direzione e controllo di presentare, a tutela dell’integrità della società, segnalazioni circostanziate di condotte illecite o di violazioni del Modello di organizzazione e gestione.

Il Decreto 231 non reca alcuna indicazione circa i destinatari delle segnalazioni, né individua i gestori dei canali previsti dal Decreto stesso.

Non spetta quindi ex lege all’Organismo di Vigilanza la gestione delle segnalazioni in questione, ed è anche rimessa alla discrezionalità della Società la scelta di individuare in un soggetto diverso il destinatario di tali segnalazioni, che avrà il compito di istruirle e adottare ogni provvedimento conseguente.

Il fatto che l’Organismo di Vigilanza non debba necessariamente essere il gestore del whistleblowing, però, non significa che esso possa rimanere estraneo alle segnalazioni e al loro seguito: l’Organismo di Vigilanza deve comunque vigilare sulle segnalazioni, in quanto parte necessaria del Modello di organizzazione e gestione.

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L’ADEGUATEZZA DELLA GOVERNANCE AI RISCHI DI SOSTENIBILITÀ

Questo articolo descrive il legame fra gli aspetti legati alla governance degli indicatori di sostenibilità – Environmental, Social and corporate Governance (“ESG”) – e il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (“CCII”), aggiornato dal D. Lgs. n. 83 del 17 giugno 2022.

I due aspetti saranno analizzati prima singolarmente e poi in rapporto tra di loro.

Sostenibilità

Con l’acronimo ESG sono descritti alcuni elementi di valutazione, utilizzati soprattutto nel settore finanziario, utili al fine di giudicare la sostenibilità degli investimenti.

Fanno riferimento all’impatto ambientale (“Environmental”) parametri come le emissioni di anidride carbonica, l’efficienza nell’utilizzare risorse naturali, l’attenzione al cambiamento climatico, alla sicurezza alimentare, e molto altro.

Nell’aspetto sociale (“Social”) rientrano il rispetto dei diritti umani e delle condizioni di lavoro, oltre all’attenzione alle politiche di diversità in ogni loro declinazione.

La terza lettera della sigla contiene in sé due parole, probabile preludio di una doppia complessità: “corporate Governance”. In questa espressione rientrano, ad esempio, la presenza di consiglieri indipendenti, una struttura di gestione solida, la qualità delle relazioni con il personale, il rispetto degli obblighi fiscali.

Rischio di impresa

Il CCII mette al centro del sistema aziendale di prevenzione della crisi l’adeguatezza, da un lato, degli assetti societari e, dall’altro, delle misure di rilevazione tempestiva della crisi.

Il CCII ha recentemente modificato l’art. 2086 del codice civile italiano, nella parte sulla gestione dell’impresa, e ha introdotto nella disposizione un secondo comma che pone in capo all’imprenditore, che operi in forma collettiva o societaria, il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alla dimensione dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale.

Con assetto organizzativo si intende un impianto incentrato sulla concreta allocazione e sull’effettiva attuabilità del potere decisionale in azienda; con assetto amministrativo si intendono le procedure per garantire che le attività aziendali, in tutte le loro fasi, siano svolte in modo corretto e ordinato; l’assetto contabile rileva i fatti economici di gestione dell’azienda.

La relazione fra Governance e rischio di credito

Un’impresa dotata di assetti che possano essere considerati “adeguati” dovrebbe essere in grado di rilevare i fattori di rischio aziendali, e di valutare l’impatto di singoli eventi sull’equilibrio economico e finanziario.

Su questo equilibrio possono influire grandemente i rischi di sostenibilità, che il Regolamento (UE) n. 1088/2019 – “SFDR”, cioè Sustainable Finance Disclosure Regulation – definisce come eventi o condizioni di tipo ambientale, sociale o di governance che, se si verificassero, provocherebbero un significativo impatto negativo, effettivo o potenziale, sul valore dell’investimento eseguito da diversi attori finanziari nelle società.

Un rischio di sostenibilità non gestito può compromettere il merito creditizio di un’azienda, avere una ricaduta sulla gestione della leva finanziaria, influire sui rapporti con le banche e impattare, in mancanza di presidi di governance adeguati, l’equilibrio economico e finanziario.

Il binomio prevenzione dei rischi di sostenibilità e governance torna in esame anche nell’ambito degli obblighi di reporting dettati dalla normativa 231, dato che il Modello 231 è associato anche alla gestione di questi temi, e impone il monitoraggio dei rischi e delle condotte aziendali che possono avere impatti sui fattori ambientali, sociali e di governance, compresi i profili di corruzione attiva e passiva.

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News #37: Sanzione privacy in arrivo per TikTok; quante proposte di legge “digital”​ in UE; intanto la Commissione taglia il budget dei Garanti.

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PRIVACY

FONDI UE, UN ALTRO NO –  Nonostante la sensibilità collettiva in materia di protezione dei dati personali divenga di giorno in giorno più alta – così come in crescita sono i dati relativi alle violazioni della normativa in materia – la Commissione Europea ha di recente #negato, per la seconda volta, l’approvazione del #budget prospettico presentato da EDPS ed EDPB. A tale atteggiamento di chiusura le Autorità hanno risposto inviando una lettera aperta al Presidente del Parlamento e al Consiglio europeo, nella quale hanno concentrato le loro preoccupazioni tanto in relazione alla tutela dei diritti dei cittadini in materia quanto sulla stessa credibilità del GDPR.

ORA TOCCA A TIKTOK – La DPC, Autorità garante irlandese, ha recentemente presentato ai propri omologhi europei il progetto di decisione relativo alla #indagine sui trattamenti di dati personali dei minori effettuati da TikTok. Come per le precedenti decisioni (ad esempio, Facebook e Instagram) che riguardano colossi mondiali dei social network, anche in questo caso il percorso per giungere ad una valutazione è dovuto passare dalla #Irlanda, dove anche TikTok ha eletto di avere la propria sede UE, ed anche in questo caos sta richiedendo molto tempo per giungere ad un punto fermo. Si deve al contempo notare il cambio di passo che la Commissioner Helen Dixon ha impresso recentemente, dopo le pesanti critiche piovute addosso all’Autorità locale da parte di altri garanti UE.

G7 DELLE AUTORITA’ PRIVACY – Gli scorsi 7 e 8 settembre si è tenuto a Bonn il secondo #appuntamento del “G7” delle Autorità per la protezione dei dati personali. Sotto la presidenza del Commissario Federale tedesco per la protezione dei dati e la libertà di informazione, i Garanti di sette tra i sistemi socio-economici più importanti al mondo (Francia, Germania, Canada, Gran Bretagna, Italia, USA e Giappone) si sono riuniti per discutere di tutte le questioni, tecnologiche e normative, inerenti al “DFFT” (Data Free Flows with Trust). Al centro del dibattito la delicata questione del #trasferimento #internazionale di dati e, soprattutto, l’Intelligenza Artificiale. A tal proposito il Garante italiano – in persona del Vice Presidente Ginevra Cerrina Feroni – ha proposto ai colleghi di definire un codice etico e culturale in materia di IA, al fine di evitare che le nuove tecnologie connesse all’Intelligenza Artificiale possano sfociare in forme di sorveglianza massiva finalizzati a controllare e manipolare il comportamento degli individui.

  • 231

PRESCRIZIONE DEL REATO PRESUPPOSTO – La Suprema Corte di Cassazione ha stabilito (con la recente sentenza n. 30685/2022, consultabile gratuitamente per gli iscritti all’associazione AODV231) che l’intervenuta prescrizione del reato presupposto #non #incide – in alcun modo – sulla cognizione del giudice in ordine alla responsabilità dell’ente che dalla commissione del reato abbia, in ogni caso, tratto un #beneficio o un #vantaggio.

  • MERCATI DIGITALI

DMA E’ LEGGE – Il Consiglio e il Parlamento hanno firmato il Digital Markets Act, che diviene così ufficialmente legge in Unione Europea. I #gatekeepers sono avvisati: il mercato digitale UE dovrà diventare sempre più competitivo ed equilibrato (almeno nelle intenzioni della normativa), grazie a meccanismi di divieti di pratiche scorrette e diritti aumentati per i cittadini.

CYBER RESILIENCE ACT – Lo scorso 15 settembre la Commissione europea ha annunciato di aver presentato una proposta per una nuova legge in materia di #cybersicurezza: il Cyber Resilience Act. Con l’obiettivo di tutelare consumatori ed imprese da prodotti inadeguati, la legge – qualora approvata – introdurrebbe nuovi requisiti di sicurezza informatica per tutti i prodotti con elementi digitali.

MEDIA FREEDOM ACT – Alle altre novità si aggiunge anche la proposta di regolamento della Commissione UE destinata a proteggere #pluralismo e #indipendenza dei media nel territorio dell’Unione: tra le tante previsioni, il #divieto di “spyware” contro i giornalisti. Intanto, dopo un primo tentativo fallito nel 2018, si è avuta notizia di una seconda iterazione – giunta al traguardo – del “Codice Europeo contro la Disinformazione”, che costituisce un laboratorio di “co-regolamentazione” dedicato a toccare differenti settori: oltre a quello dell’informazione-disinformazione, infatti, si occupa ad esempio di hate speech e disciplina pubblicitaria. Approfondisce il tema il Prof. Oreste Pollicino su lavoce.info, qui.

GOOGLE CONDANNATA – Il Tribunale dell’UE ha deciso: Google condannata a pagare (poco più di) 4 milioni di euro. La decisione chiude un capitolo apertosi nel 2018, quando  la Commissione ha sanzionato la società per #abuso di #posizione #dominante nei confronti di aziende concorrenti, produttrici di dispositivi mobili. Sebbene la recente decisione sia leggermente più favorevole dal punto di vista economico (la sanzione viene infatti “scontata” per circa 200 mila euro) resta ferma la delusione del colosso di Mountain View, che sperava di veder chiusa la questione con l’annullamento totale della sentenza.

  • NEWS DAL MONDO

USA – In occasione del forum pubblico per la sorveglianza commerciale e la sicurezza dei dati – indetto dall Federal Trade Commission e tenutosi lo scorso 8 settembre – l’Electronic Privacy Information Center (EPIC) ha sollecitato la FTC ad adottare una regola in materia di minimizzazione dei dati. L’esortazione si è inserita all’interno di un più vasto discorso pronunciato dal Vice Presidente dell’EPIC, Caitriona Fitzgerald, che ha sostanzialmente manifestato le proprie considerazioni in merito al preoccupante “stato di salute” del sistema privacy statunitense.

ALBANIA/MALTA – L’Ufficio albanese del Commissario per l’informazione e la protezione dei dati (IDP) ha annunciato la firma di un accordo di cooperazione con l’omologo maltese. Scopo dell’accordo, approfondire la conoscenza reciproca e gettare le basi per una migliore collaborazione anche dal punto di vista dello scambio di informazioni.

TANZANIA – La proposta di legge privacy locale è stata sottoposta al Parlamento per approvazione: in caso di successo, proteggerà gli utenti dei servizi di comunicazione online, fatti oggetto dal testo normativo di particolari garanzie e tutele.

SPAGNA – L’AEPD (autorità locale) ha lanciato lo scorso 14 settembre un tool di valutazione del rischio derivante dal trattamento di dati personali, in lingua spagnola: tramite esso, i titolari potranno anche misurare la necessità di effettuare DPIA e assumere misure di contenimento e sicurezza adeguate. Maggiori informazioni qui.

INDONESIA – Anche il paese del sud-est asiatico si avvicina all’approvazione di una normativa locale in materia di data protection (il “PDP Bill”) che al momento risulta approvata dalla Camera dei Rappresentanti con alcune modifiche del Ministro della Comunicazione. Se ne attende ora l’avanzamento in plenaria e la successiva ratifica in legge.

News #35: attachi informatici al settore energia; la Cassazione sulle raccomandazioni “illecite”​; Cuba ha una legge privacy, mentre gli USA no.

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  • PRIVACY & CYBERSECURITY

ATTACCHI INFORMATICI NEL SETTORE ENERGIA – Dopo GSE (Gestore dei servizi energetici) anche ENI finisce nel mirino degli attacchi informatici: secondo le notizie di stampa diffuse nei giorni scorsi, gli accessi non autorizzati alle reti aziendali non avrebbero causato conseguenze di rilevante entità, e tuttavia la soglia di allarme rimane alta. Appare a questo punto evidente l’intenzione di attaccare un settore, come quello energetico, di carattere strategico e attualmente sensibilissimo a causa del conflitto in corso.

CYBERSICUREZZA – Lo scorso 20 agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D. Lgs. 123/2022, che adegua la normativa nazionale al Regolamento Europeo 2019/881 in materia di cybersicurezza. Tra le novità introdotte, l’individuazione di una autorità nazionale di certificazione della cybersicurezza (ACN, Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale) e la definizione di un sistema sanzionatorio per i casi di violazione.

NEWSLETTER DEL GARANTE ITALIANO – Lo scorso 1 settembre è stata pubblicata la newsletter della nostra Autorità, nella quale si riporta: un parere in merito alla Carta d’Identità Elettronica per i residenti all’estero; un assenso al sistema informativo che monitora i minori non accompagnati in Italia; il via libera del Garante al database centralizzato per la lotta al riciclaggio di denaro derivante da attività criminose e per finanziamento del terrorismo.

REGISTRO OPPOSIZIONI – Dallo scorso 27 luglio è operativo il Registro delle opposizioni, strumento offerto ai cittadini allo scopo di bloccare l’arrivo, anche sul proprio cellulare, di chiamate moleste di marketing diretto. A un mese dal lancio, si registrano quasi due milioni di iscritti: tuttavia, secondo quanto riportato dall’Unione Nazionale Consumatori, soltanto nel 37% dei casi le chiamate sono effettivamente scomparse, registrandosi per altro un 5% dei casi in cui, addirittura, assolutamente nulla sarebbe cambiato, nemmeno in termini di minor frequenza di chiamate. A fronte di questi dati, la proposta dell’UNC prevede un sistema di indennizzi automatici per tutti coloro che, nonostante l’iscrizione, continuano ad essere colpiti da telefonate di marketing.

DATA BREACH PER SAMSUNG – Con un post all’interno del proprio “security response center” il colosso coreano ha confermato rumors che riferivano di un importante data breach (perdita di dati personali) avvenuto “nel tardo mese di luglio”, e conosciuto dall’azienda intorno al 4 agosto, riguardo a utenti e clienti USA. La mancanza di un sistema di reporting tempestivo come sotto il GDPR può aver contribuito a questo importante ritardo di comunicazione, dato che la normativa americana varia da stato a stato. Seguiranno aggiornamenti.

  • 231

RACCOMANDAZIONI ILLECITE – Secondo quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione (con sentenza n. 30564 dello scorso 2 agosto, consultabile gratuitamente per gli iscritti all’associazione AODV231) il semplice sfruttamento di una relazione con un pubblico agente o il mero uso di una relazione personale non è sufficiente per integrare il reato di traffico di influenze illecite, di cui all’art. 346-bis c.p. Affinché la fattispecie di reato si realizzi, è necessario che sussista un quid pluris, e cioè che la mediazione illecite si concretizzi in un vero e proprio accordo accordo tra committente e mediatore finalizzato a produrre un indebito vantaggio per il primo.

NUOVO WHISTLEBLOWING IN FRANCIA – E’ entrata in vigore lo scorso 1 settembre la legge di riforma del Whistleblowing nel paese, che tocca anche la “Sapin II” omologa – per alcuni temi e, in particolare, per anticorruzione e antiriciclaggio – della nostra 231/2001. Qui un articolo di Data Guidance e qui la nuova legge, mentre le modifiche alla Sapin II le trovate qui (in lingua francese, naturalmente).

  • MERCATI DIGITALI

DIGITAL LEARNING – Atlas VPN (servizio VPN nato con l’obiettivo di rendere internet sicuro e accessibile a tutti) ha recentemente condotto e diffuso una ricerca sulle app educative presenti nello store di Android, all’esito della quale ha stilato una classifica delle dieci che raccolgono il maggior numero di dati. Dal report, per di più, si evince che nel 70% dei casi tali dati vengono condivisi con terze parti. Le maggiori preoccupazioni si ricollegano al fatto che, nella gran parte dei casi, gli utilizzatori di tali piattaforme sono soggetti minori: tra le app più “dativore” HelloTalk e Google Classroom.

ANTITRUST USA VS. APPLE – Secondo alcune indiscrezioni, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti starebbe lavorando in vista di una possibile causa in materia di antitrust contro Apple. Al centro della questione vi sarebbero gli Airtag – gli innovativi dispositivi che consentono di non smarrire gli oggetti sui quali vengono apposti. La causa sembrerebbe ricollegarsi ad un reclamo proposto da Tile, società anch’essa californiana e anch’essa produttrice di simili dispositivi.

TWITTER-WATCH – Prosegue la “saga” di Twitter vs. Musk, questa volta con la diffusione della notizia del deposito di una denuncia a carico del social network da parte dell’ex responsabile della sicurezza, Peiter “Mudge” Zatko, legata a pesanti mancanze nella protezione degli utenti. Naturalmente, gli avvocati del magnate sudafricano si sono subito affrettati a citare il whistleblower nella causa in corso, la cui udienza sarà il prossimo 9 settembre. Trovate un interessante riassunto su Guerre di Rete, qui. Stay tuned!

  • NEWS DAL MONDO

CUBA – Lo scorso 25 agosto è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica di Cuba la Legge sulla protezione dei dati personali (n.149/2022). La nuova normativa – che  entrerà a tutti gli effetti in vigore trascorsi 180 giorni dalla pubblicazione – garantirà ai soggetti interessati il controllo sui propri dati al fine di evitare il verificarsi di qualsiasi violazione nella trasmissione dei propri diritti personali per finalità diverse da quelle legalmente consentite.

GERMANIA – Il Ministro tedesco del digitale e dei trasporti sta attualmente lavorando su un progetto di legge volto a semplificare la gestione del consenso relativo ai cookie. Più nello specifico, l’obiettivo sarebbe quello di ridurre il numero di pop-up in cui gli utenti si imbattono nel corso della loro navigazione. In tal senso, un’eccezione riguarda i siti finanziati da pubblicità: se l’utente presta il consenso, nessun pop-up verrà più visualizzato, mentre, qualora lo rifiuti, il pop-up finalizzato alla sua raccolta verrà di volta in volta riproposto.

USA – La FTC (Federal Trade Commission) ha recentemente reso noto di aver intentato una causa nei confronti di Kochava Inc., broker di dati. Le ragioni della causa sono da rintracciarsi nell’attività di vendita di informazioni – relative a centinaia di migliaia di soggetti – utilizzate per tracciare gli spostamenti degli individui coinvolti, anche da e per luoghi sensibili (ad esempio luoghi di culto o centri di accoglienza per senzatetto).

HONG KONG – Il Garante per la protezione dei dati personali di Hong Kong (PCPD) ha recentemente pubblicato le “Misure per la valutazione della sicurezza delle esportazioni di dati”, contenenti precisi e rigorosi requisiti relativi alle modalità di effettiva esecuzione di tali valutazioni di sicurezza. L’Autorità locale ha poi provveduto a precisare che, laddove i requisiti siano soddisfatti, potrebbe essere richiesto al soggetto che ha effettuato le valutazioni un inoltro delle risultanze alla Cybercrime Administration of China (CAC, Garante cinese).

NORVEGIA – L’Autorità locale ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio condotto in tema di monitoraggio dei lavoratori, che include diversi interessanti spunti su come rendere il luogo di lavoro tecnologico (e lo smart working) più a misura di GDPR. Data Guidance ne fa un riassunto qui, per chi non conoscesse il norvegese.

Decreto “Trasparenza”/ 1: implicazioni privacy delle novità

Il prossimo 13 agosto entrerà a tutti gli effetti in vigore, senza la previsione di alcun periodo di transizione, il nuovo D.Lgs. 104/2022 (cd. Decreto Trasparenza).

Il Decreto, emanato per recepire all’interno dell’ordinamento italiano la Direttiva Europea 2019/1152 (cd. Direttiva trasparenza) reca importanti novità in materia di obblighi – soprattutto infornativi ed integrativi – del datore di lavoro. Tali obblighi dovranno essere assolti, con riferimento ai nuovi assunti, al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro e comunque prima dell’inizio dell’attività lavorativa, mediante la consegna del contratto di lavoro redatto per iscritto o, in alternativa, della copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro.

La finalità perseguita – prima a livello comunitario e poi interno – è quella di migrare verso forme di lavoro più trasparenti e prevedibili: in quest’ottica, la previsione di nuovi oneri in capo al datore di lavoro si configura come lo strumento operativo necessario al raggiungimento delle finalità sancite dalla normativa.

Le nuove disposizioni si applicano ad una vasta gamma di tipologie contrattuali (a titolo esemplificativo e non esaustivo, contratti di lavoro subordinato, somministrato, contratti di lavoro intermittente e co.co.co.) e, come già accennato, prevedono un aumento degli oneri posti in capo al soggetto qualificato, nell’ambito del rapporto, come datore di lavoro. Tali oneri possono sostanzialmente suddividersi in due categorie.

Da un lato vengono innanzitutto stabiliti obblighi di comunicazione inerenti al rapporto di lavoro, che impongo al datore di lavoro di comunicare – modo chiaro e trasparente e con modalità cartacea o digitale – informazioni quali, tra le altre, l’identità delle parti e il luogo di lavoro, la durata delle ferie e i modi per esercitare il diritto di recesso

Dall’altro lato, vengono introdotte novità anche in materia di tutela delle informazioni e dei dati personali relativi ai lavoratori.

 Da questo punto di vista, il datore di lavoro sarà tenuto a:

  • informare il lavoratore circa l’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati in grado di incidere sul rapporto di lavoro;
  • integrare l’informativa, qualora già resa in precedenza, con tutte le istruzioni di sicurezza relative all’utilizzo di tali sistemi atomizzati.

Di notevole importanza anche la previsione di specifiche misure di tutela. In particolare:

  1. la possibilità di ricorrere a strumenti più agevoli e rapidi per la risoluzione di controversie insorte tra le parti;
  2. la previsione di una sanzione per comportamenti ritorsivi che il datore di lavoro ponga eventualmente in essere, come conseguenza dell’avvio di un procedimento, anche non giudiziario, da parte del lavoratore;
  3. la previsione di una tutela contro il licenziamento o altro comportamento ritorsivo posto eventualmente in essere dal datore di lavoro in conseguenza dell’esercizio, da parte del lavoratore, dei diritti stabiliti nel decreto trasparenza e nel D.Lgs. 152/1997.

Di seguito la nostra scheda riassuntiva dettagliata, relativa all’ambito privacy, a cui seguirà una ulteriore scheda in ambito lavoristico redatta in collaborazione con lo studio RG Avvocati.

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Novità in materia Smart Working: il 31 agosto (al momento) è la data.

Il prossimo 31 agosto la versione “emergenziale” dello smart working cesserà.

Con la fine del periodo emergenziale tramonterà anche il periodo “di favore” concesso alle aziende private allo scopo di fornire un accesso allo smart working – o, abbandonando ogni inglesismo, al cd. “lavoro agile” – semplificato dal punto di vista procedurale.

Nel corso degli ultimi due anni, infatti, l’accesso a tale modalità di lavoro è avvenuta attraverso un iter estremamente celere e scorrevole, rivelandosi sufficiente l’invio al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di apposito modulo contenente l’elencazione di tutti i lavoratori dell’azienda coinvolti nel passaggio di modalità.

Quindi, dal 1° settembre 2022 toneranno in vigore le regole dettate dalla legge n. 81/2017, integrate da quanto in ultimo stabilito dal “Protocollo nazionale sul lavoro in lavoro agile” del 7 dicembre 2021.

Già lo scorso marzo eravamo intervenuti sul tema con l’approfondimento “Lo smart working: nuova normalità”.

Tuttavia, alla luce dell’imminente cambio di normativa, ci sembra opportuno rispolverarne i passaggi fondamentali.

Nell’ultimo paragrafo, invece, trovate le attività concrete e operative da effettuare prima del 31 agosto, al fine di continuare ad accedere al “lavoro agile” correttamente.

Legge 81/2017

La legge 22 maggio 2017, n. 81 reca – al capo II e con l’obiettivo di bilanciare le esigenze private e professionali del lavoratore – disposizioni in materia di lavoro agile, per tale intendendosi una modalità di lavoro flessibile, caratterizzata dall’assenza di particolari vincoli in termini di luogo e di orari di lavoro. 

Rispetto alla procedura semplificata di matrice emergenziale, la legge sul lavoro agile risulta sicuramente più rigida e vincolante: la comunicazione complessiva dei nominativi sarà soppiantata dalla sottoscrizione di un accordo individuale con ciascuno dei lavoratori coinvolti.

Vincoli vengono poi imposti al datore di lavoro anche per quanto riguarda il contenuto di tale accordo.

Dovrà infatti figurare nel testo:

  • la previsione di tempi di riposo del lavoratore e diritto alla sua disconnessione (art. 19);
  • la previsione del diritto recesso dall’accordo (art. 19, secondo comma);
  •  una garanzia di un trattamento economico e normativo non inferiore a quello applicato ai colleghi che eseguono le mansioni in modalità ordinaria (art. 20);
  • la disciplina poteri di controllo del datore di lavoro ex art.4 Statuto dei lavoratori (art.21).

Il datore di lavoro, inoltre, deve inoltre fornire al lavoratore agile una informativa scritta per la sicurezza, una tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali per rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dell’azienda, nonché una tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto.

Protocollo Nazionale sul Lavoro Agile

Ad integrare la normativa è intervenuto, lo scorso 7 dicembre, il Protocollo nazionale sul lavoro agile, dettando regole e vincoli ulteriori.

Innanzitutto, vengono individuate informazioni aggiuntive da inserire nell’accordo di cui alla legge n.81/2017. Tra queste figurano, tra le altre, la durata dell’accordo e i luoghi eventualmente esclusi ai fini della prestazione lavorativa, l’alternanza con periodi di lavoro in sede e gli strumenti di lavoro, nonché i tempi di riposo e le forme di esercizio dei diritti sindacali.

Ribadisce inoltre gli elementi caratterizzanti il lavoro agile:

  • l’assenza di un preciso orario di lavoro (art.3);
  • il rispetto della normativa relativa alla protezione dei dati personali (art.12);
  • la libertà del lavoratore di scegliere il luogo in cui svolgere la prestazione lavorativa (art.4);
  • la fornitura, di regola, da parte del datore di lavoro di tutta la strumentazione tecnologica e informatica necessaria allo svolgimento della prestazione lavorativa (art.5);

Suggerimenti operativi

Per un passaggio lineare allo smart working – o per un suo mantenimento, laddove sia attualmente attivo –, un primo aspetto da tenere ben in conto attiene alla comunicazione: è difatti importantissimo avvisare i lavoratori di tale possibilità, preferibilmente attraverso l’organizzazione di incontri di approfondimento, finalizzati anche a comprendere, tra le altre cose, le preferenze e le disponibilità per quanto riguarda la il numero di giornate lavorative da destinarsi all’una o all’altra modalità di lavoro.

Allo stesso modo, particolare attenzione va riservata alla gestione della contrattazione individuale. Ogni lavoratore è difatti portatore di esigenze e desideri diversi, che diversamente impattano sulla buona riuscita del progetto.

Dovranno pertanto essere attentamente analizzati i bisogni di ciascun lavoratore, in modo tale da garantire che l’obiettivo fissato dal Legislatore – bilanciamento vita privata/lavoro, ma anche incremento della produttività – venga efficacemente raggiunto.

Alla luce di quanto detto, appare evidente che gli aspetti da tenere in conto sono numerosi e diversi, che non si limitano al solo ambito della normativa lavoristica ma ricomprendono anche aspetti privacy e sicurezza sul lavoro.

Al di là dei singoli accordi individuali, è consigliato – anzi, quasi necessario – stilare un regolamento interno che riporti le logiche aziendali poste alla base dell’organizzazione dello smart working nonché predisporre e/o revisionare il regolamento d’uso degli strumenti aziendali e il codice disciplinare.

Per questa ragione, il suggerimento è quello di coinvolgere, sempre e sin dall’inizio, tutti i consulenti e i referenti aziendali di volta in volta interessati dall’innovazione o cambiamento, in modo tale staccarsi sempre più dal concetto di “emergenza”, rendendo sempre più “normale” il ricorso a questa forma agile di lavoro.

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Organismo di Vigilanza: compiti, requisiti e responsabilità

L’organismo di vigilanza è un organo introdotto nel nostro ordinamento dal D. Lgs. 231/ 2001– che lo scorso 8 giugno ha compiuto 21 anni, diventando così maggiorenne in tutti gli stati del mondo – istituito al fine di vigilare sulla corretta applicazione del modello di organizzazione, gestione e controllo (cd. MOGC) e dei protocolli in esso previsti, in tutti quei casi in cui gli operatori imprenditoriali decidano di dotarsene.

È importante ricordare, infatti, che l’adozione del modello di organizzazione e gestione e la correlata istituzione di un organismo di vigilanza (anche “OdV”) sono rimesse alla facoltà di ciascuna entità produttiva; il legislatore lascia dunque loro piena libertà di decidere se equipaggiarsi o meno di questi strumenti di compliance.

L’OdV riveste nel panorama aziendale un ruolo centrale ed insostituibile: soltanto laddove questo funzioni in maniera corretta – attraverso una scrupolosa attività di vigilanza sull’osservazione del modello e di aggiornamento dello stesso, ove necessario – la società che lo ha nominato sarà in grado di ottenere l’esimente prevista dall’art. 6 del Decreto 231 in relazione ai reati-presupposto commessi da soggetti operanti al suo interno.

Cosa ci dice l’articolo 6

L’art. 6 comma 1, lettere b) e d) del D. Lgs 231/2001 stabilisce che l’ente può essere esonerato dalla responsabilità conseguente alla commissione di illeciti da parte di un dipendente – apicale o sottoposto – se:

  • prova che “il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo” e
  • non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo”.

Già dai primi articoli il Decreto esprime in maniera chiara ed evidente la necessità che il modello, una volta adottato, non rimanga relegato allo stato di mero adempimento formale.

La corretta attuazione del MOGC passa, come è evidente, inevitabilmente attraverso una costante attività di controllo e vigilanza dei protocolli e delle procedure in esso previste, nonché di adeguamento laddove le stesso dovessero risultare in corso d’opera inadeguate al perseguimento degli obiettivi di tutela fissati dalla normativa 231.

Affinché tali attività vengano svolte nel migliore dei modi dall’OdV, la legge richiede la sussistenza nei suoi (o nel suo, a seconda dei casi) membri di particolari requisiti.

Composizione: monocratica o collegiale?

La legge non fornisce precise indicazioni per quanto concerne la composizione dell’OdV; agli operatori del settore è dunque demandata la scelta di optare tra un organismo monocratico o collegiale.

Sebbene la scelta sia sostanzialmente libera, è prassi consolidata quella di optare per un organismo collegiale (formato da componenti interni o esterni all’ente), soprattutto nelle strutture aziendali di grandi dimensioni e maggiormente articolate.

In questi casi, se l’ente ha natura di società di capitali, l’art. 6 del Decreto 231 comma 4 bis, il ruolo di OdV può essere ricoperto dal collegio sindacale, dal consiglio di sorveglianza e dal comitato per il controllo della gestione.

La scelta deve, in altre parole, sempre rispecchiare la complessità delle attività che l’organismo è chiamato a gestire: se optare per un Organismo di Vigilanza monocratico risulterebbe delicato e foriero di problematiche per una multinazionale, potrebbe certamente essere la soluzione ottimale per una piccola impresa in cui l’organizzazione interna non è particolarmente strutturata.

Proprio per tali ragioni, l’art. 6 comma 4 prevede la possibilità che nelle piccole imprese sia addirittura lo stesso organo dirigente a ricoprire il ruolo di OdV.

Requisiti

In considerazione delle delicate funzioni che la legge demanda alla competenza dell’Organismo di Vigilanza, si richiedere che i suoi membri siano dotati di particolari requisiti, elaborati dalla giurisprudenza sulla base di quanto espresso nel decreto 231.

Autonomia e indipendenza: la posizione dell’organismo di vigilanza deve essere tale da garantire un’azione di controllo autonoma, ossia svincolata da ogni forma di condizionamento proveniente da componenti dell’ente, in particolare dall’organo dirigente (che, al contrario, è uno dei soggetti controllati).

L’organismo deve inoltre essere personalmente ed economicamente indipendente: non deve cioè versare in condizioni di conflitto di interesse, nemmeno potenziali.

È chiaro che, quanto più l’organismo sia composto da soggetti estranei all’organizzazione, tanto maggiore sarà il suo grado di autonomia ed indipendenza globale.

A livello giurisprudenziale si è poi consolidata una posizione per cui, perché possa parlarsi di autonomia ed indipendenza dell’organismo deputato alla vigilanza del modello 231, non debba sussistere alcun tipo di sovrapposizione tra soggetto controllato e organo controllante.

Tale principio è stato messo nero su bianco anche nelle sentenze che hanno definito il caso (tragicamente famoso) dell’incidente avvenuto nello stabilimento torinese delle acciaierie Thyssenkrupp.

Professionalità: tale requisito, (elaborato da Tribunale di Napoli con sentenza del 26 giugno 2007) richiede che l’OdV sia dotato di specifiche competenze e conoscenze tecniche idonee a garantire un controllo adeguato.

Visti gli evidenti punti di contatto della normativa 231 con elementi di diritto penale, uno dei componenti dell’OdV dovrebbe preferibilmente essere un esperto della materia.

• Continuità di azione: l’OdV deve essere strutturato in maniera tale da garantire una attività di controllo costante e continuata, tale da garantire modifiche puntuali al modello ogni qual volta ciò risulti necessario in relazione a quello che è lo sviluppo della realtà aziendale che il modello è chiamato a regolare.

Compiti e responsabilità

I poteri, i compiti e le responsabilità affidati dalla normativa vigente alle cure dell’OdV sono tutti indirizzati alla prevenzione della commissione di reatipresupposto da parte dell’organizzazione che lo ha nominato e si sostanziano essenzialmente in attività tipo consultivo, proposito e di impulso, tra cui (a titolo esemplificativo e non esaustivo):

  • vigilare sulla corretta applicazione del modello;
  • curare l’aggiornamento e l’implementazione dello stesso, ove necessario;
  • verificare la diffusione del modello in ambito aziendale;
  • analizzare i flussi informativi;
  • svolgere audit.

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Richiesta di accesso ai dati manifestamente infondata o eccessiva: quando il Titolare può dire “no”

“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, usava dire lo zio Ben a Peter Parker / Spiderman.

Ed è evidente, se si tiene a mente tutto ciò, che un Titolare del trattamento è spesso chiamato a porsi, e poi attuare, una lunga lista di obblighi e responsabilità.

Tra di esse hanno una posizione di assoluto rilievo le misure necessarie a fornire all’interessato le informazioni relative ai trattamenti gestiti, prendersi carico dei diritti (accesso, rettifica, cancellazione e limitazione del trattamento) tra cui la portabilità dei dati e l’opposizione al trattamento.

In questo quadro, si rimane particolarmente colpiti quando ci si imbatte in uno di quei casi in cui il Titolare ha potuto legittimamente negare l’accesso ai dati di un interessato.

A fronte delle tutele previste per l’accesso ai dati personali dell’interessato, e in particolare, dagli artt. 15-22 GDPR, la Corte di Norimberga ha infatti ritenuto prevalente, ai sensi dell’art. 12(5) GDPR, il diritto del Titolare a non dare seguito a richieste manifestamente infondate o eccessive.

I fatti

Il Titolare del trattamento è una società di assicurazione privata, con cui l’interessato ha stipulato un contratto di copertura assicurativa.

Le parti hanno dato avvio a una controversia legata alla supposta invalidità – invocata dall’assicurato – di diversi aumenti del premio che si erano succeduti nel periodo di vigenza del contratto.

L’interessato ha così adito la Corte Regionale di Ansbach per il rimborso dei premi pagati in eccesso, e ha contestualmente inviato una richiesta di accesso ai dati personali al Titolare del trattamento, avente ad oggetto tutte le informazioni sugli aggiustamenti occorsi ai premi effettuati, con gli aggiornamenti alle polizze assicurative, i supplementi alle stesse e tutte le lettere di notifica inviate, nel tempo, al soggetto interessato.

Il Titolare, a tale richiesta, ha opposto il proprio diniego.

La decisione

La Corte Regionale di Norimberga ha considerato che lo scopo della richiesta dell’assicurato non fosse quella di verificare la legittimità del trattamento dei dati che lo riguardavano, ma piuttosto quella di controllare se gli aggiustamenti fatti ai premi assicurativi fossero adeguati alla legge tedesca.

Pertanto, la Corte ha ritenuto che l’istanza presentata fosse manifestamente eccessiva, e ha stabilito che un Titolare può legittimamente rifiutarsi di ottemperare a una tale richiesta di accesso ai dati, ai sensi dell’art. 12(5)(b) del GDPR.

La decisione può dare spunto per una riflessione su cosa costituisca una richiesta “manifestamente eccessiva” e, più in generale, un “abuso” del diritto di accesso ai dati personali.

Sul punto, la Corte ha fatto riferimento allo scopo dell’art. 15 GDPR, che va letto congiuntamente e in armonia con il Considerando 63.

Dalla lettura delle due disposizioni, infatti, si può constatare che l’accesso ai dati personali concesso all’interessato ha, in generale, come obiettivo quello di permettere che il soggetto sia consapevole del trattamento dei dati, e possa verificarne la legittimità – obiettivi, entrambi, non presenti nell’intenzione dell’interessato nel caso proposto.

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Controlli a distanza: il punto tra privacy e diritto del lavoro

Lo Statuto dei lavoratori prevede il generale divieto di controlli a distanza dei dipendenti, ma, allo stesso tempo, all’art. 4, consente l’utilizzo, tra gli altri strumenti, di impianti audiovisivi a fini di controllo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per ragioni di tutela del patrimonio aziendale.

La materia è stata riformata – come noto – dal Jobs Act, che ha integrato le norme previgenti ed in particolare proprio l’art. 4 (al secondo comma) con l’introduzione di un riferimento ai controlli sugli strumenti impiegati per rendere la prestazione lavorativa e di registrazione degli accessi e delle presenze, a cui non si applicano i vincoli generali di cui al comma primo.

Di conseguenza, gli “strumenti” (tecnologici, per lo più) impiegati dal lavoratore per rendere la propria prestazione lavorativa – quali computer, tablet, cellulari, telepass – possono divenire fonte di controllo a distanza, da parte del datore di lavoro, anche senza il previo accordo con i sindacati o l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.

In proposito non è da trascurare anche la questione della liceità della geolocalizzazione sull’auto aziendale in uso ai dipendenti, che è stata affrontata, di recente, dalla giurisprudenza italiana (si veda da ultimo Corte d’Appello di Roma nella Sentenza n. 641/2021).

L’utilizzo degli strumenti di controllo a distanza è – in sostanza – tendenzialmente legittimo solo a determinate condizioni e nel rispetto di ben specifici vincoli e impostazioni, che andiamo di seguito a esaminare.

Videosorveglianza

Dal punto di vista giuslavoristico, il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali unitarie (“RSU”) o aziendali (“RSA”) devono sottoscrivere un accordo collettivo contenente la regolamentazione del funzionamento dell’utilizzo dell’impianto di videosorveglianza.

Se l’accordo non è raggiunto, o nel caso in cui in azienda non siano presenti RSU o RSA, il datore di lavoro deve rivolgersi all’Ispettorato del Lavoro territoriale per chiedere un’autorizzazione all’installazione dell’impianto, depositando un’istanza motivata. L’autorizzazione dell’ispettorato oppure l’accordo sindacale sono necessari anche se l’impianto entra in vigore nelle fasce orarie in cui l’azienda è vuota, ed è irrilevante che l’impianto installato non sia funzionante.

Dal punto di vista della privacy, sul tema, è previsto che il titolare del trattamento, in conformità con il principio di responsabilizzazione di cui all´art. 24 GDPR, debba valutare la conformità del trattamento che intende effettuare alla disciplina vigente, verificando il rispetto di tutti i principi in materia nonché la necessità di effettuare, in particolare, una valutazione di impatto ex art. 35 del GDPR oppure attivare la consultazione preventiva ai sensi dell´art. 36 del GDPR.

I dipendenti devono essere certamente portati a conoscenza dell’installazione dell’impianto grazie a un comunicato o a un cartello informativo (“informativa minima”) e anche grazie ad un’informativa estesa contenente l’indicazione e dati di contatto del titolare del trattamento e del Data Protection Officer (“DPO”), se presente, nonché le finalità del trattamento.

Nello stesso senso, anche l’impostazione e il direzionamento delle telecamere che formano l’impianto non può trascurare i principi di minimizzazione e limitazione del trattamento, pertanto ponendo grande attenzione a cosa, e soprattutto chi, viene ripreso (ad esempio, escludendo la pubblica via per quanto possibile e riducendo il campo di copertura alle sole parti dell’azienda utili alla finalità prevista).

Buona regola, infine, è quella di istruire per iscritto tutti i soggetti (interni o esterni, come la società che svolge la vigilanza diurna o notturna) dei vincoli e delle necessarie attenzioni alla riservatezza che essi devono porre nel visionare, dal vivo come in remoto, le immagini raccolte dall’impianto di videosorveglianza.

Gps sui veicoli in uso ai dipendenti

Nelle ipotesi in cui la possibilità di individuare in un dato momento la posizione dei veicoli, e, di conseguenza, dei lavoratori, mediante sistemi di localizzazione, possa rivelarsi utile per soddisfare esigenze organizzative, produttive, nonché per esigenze di sicurezza sul lavoro, devono essere rispettate sia la disciplina sulla protezione dei dati personali, sia la normativa a tutela dei lavoratori, tenuto conto anche che la localizzazione dei veicoli potrebbe comportare una forma di controllo a distanza della loro attività.

L’esplicito richiamo effettuato dall’art. 4 co. 3 dello Statuto dei lavoratori alle disposizioni di cui al Codice Privacy (ora da intendersi, naturalmente, anche al GDPR), in particolare a quello relativo all’obbligo di rilascio dell’informativa, classifica, di fatto, l’attività di geolocalizzazione come trattamento dei dati personali, qualora la rilevazione dei dati dal dispositivo consenta di raccogliere informazioni sui singoli dipendenti – identificati o identificabili – e lo sottopone a tutte le relative disposizioni.

Il GDPR introduce, a seguire, una serie di principi generali, che costituiscono la base di riferimento per la realizzazione di ogni tipologia di trattamento di dati personali realizzata dal titolare del trattamento, compresa la rilevazione della posizione del dipendente in orario di lavoro mediante l’utilizzo di dispositivi GPS che possano integrare gli estremi del controllo a distanza e che muovono dai principi di “privacy by design” e “privacy by default”.

Per il conseguimento di ciascuna delle finalità legittimamente perseguite dal datore di lavoro, che riveste la qualità di titolare del trattamento, possono formare oggetto di trattamento, mediante sistemi opportunamente configurati, solo i dati pertinenti e non eccedenti: tali possono essere, oltre all’ubicazione del veicolo, la distanza percorsa, i tempi di percorrenza, il carburante consumato, la velocità media del veicolo.

Nel rispetto del principio di necessità, inoltre, la posizione del veicolo non deve essere monitorata continuativamente dal titolare del trattamento, ma solo quando ciò si renda necessario per il conseguimento delle finalità legittimamente perseguite.

Geolocalizzazione di smartphone, tablet e dispositivi mobili

Il principio di necessità, ai sensi del quale la posizione del veicolo può essere monitorata solo quando ciò si renda indispensabile per il perseguimento delle finalità previste, si applica allo stesso modo alla localizzazione dei dispositivi mobili in possesso dei dipendenti.

Bisogna considerare, in questo caso, anche che, ad esempio, lo smartphone è, per le sue caratteristiche, inevitabilmente destinato a “seguire” la persona che lo possiede, indipendentemente dalla distinzione fra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro.

Il Garante ha però chiesto, in successivi provvedimenti sul tema, a maggiore tutela dei lavoratori, di posizionare sul dispositivo un’icona che indichi che la localizzazione è attiva e di configurare il sistema in modo tale da oscurare la posizione geografica dei dipendenti decorso un dato periodo di inattività dell’operatore sul monitor della centrale operativa.

I dati raccolti dal sistema possono essere consultati dagli addetti alla centrale operativa e dalla direzione informatica della società muniti di apposite credenziali e profili autorizzativi, in particolare per l’estrazione dei dati.

A ulteriore tutela dei dipendenti deve essere escluso l’utilizzo dei dati per finalità di controllo dei lavoratori o per scopi disciplinari. La società deve fornire, in ogni caso, ai dipendenti, un’idonea informativa che consenta l’esercizio dei diritti.

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Novità 231 dell’ultimo triennio

Nel corso degli ultimi anni il D.lgs. 231/2001 (“Decreto 231”), è stato oggetto di alcuni rilevanti interventi integrativi, dal punto di vista del catalogo dei reati presupposto: nella sua prima versione, infatti, il Decreto 231 contemplava solo disposizioni previste dai trattati e dalle convenzioni di cui la legge di delega costituiva ratifica e attuazione.

Ad oggi, invece, l’elenco delle basi si è ampliato notevolmente, giungendo all’art. “25-duodevicies”, ovvero in italiano il numero “diciotto” (letteralmente “due da venti” dal latino).

L’effetto risultante è quindi quello di aver trasformato oggi il Decreto 231 da disciplina volta a punire i c.d. “corporate crimes” ad una norma di ampio, amplissimo raggio, in cui sono confluiti gli illeciti più diversi.

I reati contro la Pubblica Amministrazione (novità 2019)

Nella sua prima versione, l’art. 25 del Decreto 231 introduceva la responsabilità dell’ente in relazione ai reati di corruzione e concussione commessi da soggetti apicali o in posizione subordinata, nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

La legge n. 190/2012 (“Legge Anticorruzione”) ha modificato per la prima volta l’art. 25 del Decreto 231, inserendo nella rubrica della norma anche il reato di “induzione indebita a dare o a promettere utilità” e ha aggiunto la relativa disposizione ai reati presupposto, l’art. 319-quater del Codice penale.

Dalla Legge Anticorruzione è nata l’Autorità Nazionale Anticorruzione (“ANAC”), chiamata a definire a livello nazionale gli obiettivi per lo sviluppo della strategia di prevenzione della corruzione, ai quali devono conformarsi, a livello locale, le singole amministrazioni.

Successivamente, l’art. 25 del Decreto 231 è stato oggetto di un ulteriore intervento ad opera della Legge n. 3/2019 (“Legge spazzacorrotti”), che ha introdotto tra i reati presupposto anche il “traffico di influenze illecite” (art. 346-bis) e ha inasprito le sanzioni interdittive originariamente previste.

Nella prospettiva di conformarsi alle disposizioni innovative contenute nella “Direttiva PIF” (n. 2017/1371), il D. Lgs. 75/2020 ha apportato ulteriori novità al Decreto 231, prevedendo un inasprimento delle pene e un’estensione dell’area di punibilità per alcuni reati quando dalla loro commissione derivi una lesione degli interessi finanziari dell’Unione europea. Si è inoltre introdotta la punibilità a titolo di tentativo, nell’ipotesi di atti compiuti anche nel territorio di un altro Stato membro e finalizzati all’evasione dell’IVA per un valore non inferiore a 10 milioni di Euro. Non meno importante è stato il notevole ampliamento dei reati presupposto in materia di pubbliche forniture, di frode in agricolture e di contrabbando nei casi in cui da essi derivi un danno agli interessi finanziari dell’Unione europea.

Gli interventi legislativi che si sono succeduti nel tempo sono stati ispirati in particolare dall’esigenza di fornire una risposta alle istanze di contrasto alla “mala gestio” provenienti dall’opinione pubblica, e finalizzati a contrastare un fenomeno corruttivo che, a sistema, si rappresentava come sempre più diffuso e contiguo alla criminalità organizzata.

I reati tributari e il recepimento della direttiva PIF (novità 2019)

L’inclusione degli illeciti tributari nell’elenco dei reati presupposto è avvenuta ad opera del Decreto Legge n. 124 del 26 ottobre 2019 (“Decreto Fiscale”), a seguito di due ordini di ragioni: nazionale e sovranazionale.

Dal primo punto di vista, la giurisprudenza iniziava a manifestare l’ipotesi che i reati tributari dovessero comunque essere oggetto di monitoraggio, in quanto rientranti fra i delitti non colposi dai quali l’autoriciclaggio può trarre origine. I reati tributari erano potenzialmente idonei, infatti, a generare la responsabilità dell’ente nella misura in cui rappresentavano presupposto del delitto di associazione a delinquere, frequentemente di natura transnazionale.

Dalla prospettiva sovranazionale, l’Unione europea, con la Direttiva (UE) n. 2017/1371 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (“Direttiva PIF”), ha chiesto agli Stati membri di includere nella normativa nazionale (e quindi per noi nel Decreto 231) anche reati che ledono gli interessi dell’Unione europea, tra i quali le c.d. “frodi IVA”.

L’art. 6 della Direttiva PIF, in particolare, imponeva agli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili dei reati commessi a loro vantaggio da qualsiasi soggetto che detenga una posizione qualificata in seno alla persona giuridica stessa.

La conversione in legge, con modificazioni, del Decreto Fiscale (avvenuta con Legge 157 del 24 dicembre 2019) ha quindi introdotto nel Decreto 231 l’art. 25-quinquiesdecies, includendo tutte le fattispecie tributarie di maggiore gravità, tra le quali, dichiarazioni fraudolente, emissione di fatture false, occultamento o distruzione dei documenti contabili e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

I reati relativi a strumenti di pagamento “cashless” (novità 2021)

Nel solco di attuazione della Direttiva (UE) n.2019/713 relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti, l’art. 1 del D. Lgs. 184/2021, ha introdotto la nozione di strumenti di pagamento “cashless” o, in altri termini, diversi dai contanti.

La tematica ha un perimetro molto vasto e riguarda tutti i mezzi che permettono di gestire flussi monetari in formato elettronico. Sono compresi in questa ottica anche nuovi canali, ad esempio le applicazioni che consentono l’utilizzo di carte elettroniche prepagate, carte carburante, ticket per i pasti.

I reati presupposto introdotti sono relativi ad alcune condotte determinate, contemplate nelle fattispecie di seguito esposte.

In primo luogo, l’art. 493-ter del Codice Penale incrimina la condotta di chi, con la finalità di trarne un profitto, utilizza, non essendone titolare, carte di pagamento o ogni altro strumento di pagamento diverso dai contanti: la disposizione punisce anche chi falsifica o altera gli strumenti di pagamento cashless o possiede, cede o acquisisce strumenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati.

L’art. 493-quater del Codice Penale incrimina invece la produzione e varie condotte di “trasferimento” che siano volte a procurare per sé o per altri apparecchiature, dispositivi o programmi informatici che, per le proprie caratteristiche tecniche, siano costruiti principalmente per commettere reati riguardanti gli strumenti di pagamento diversi dai contanti. Infine, è rilevante l’art. 640-ter del Codice Penale per l’ipotesi aggravata della frode informatica che realizzi un trasferimento di denaro, di valore monetario o di valuta virtuale.

Infine, è rilevante l’art. 640-ter del Codice Penale per l’ipotesi aggravata della frode informatica che realizzi un trasferimento di denaro, di valore monetario o di valuta virtuale.

I reati “contro i beni culturali” (novità 2022)

Il 22 marzo 2022 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge 9 marzo 2022, n. 22 recante le disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale.

L’intenzione della norma è quella di rafforzare gli strumenti di tutela di categorie di beni di rilevante interesse sociale, artistico e culturale, con l’inserimento di alcuni delitti contro tale patrimonio tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti.

La riforma integra, in particolare, il catalogo dei reati presupposto con l’inserimento di due nuovi articoli: l’articolo 25-septiesdecies in tema, proprio, di delitti contro il patrimonio culturale; e l’art. 25-duodevicies in materia di riciclaggio di beni culturali e devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici.

Le disposizioni prevedono l’applicazione all’ente della sanzione pecuniaria da cinquecento a mille quote nel caso in cui l’ente, o una sua unità organizzativa, venga stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di tali delitti; si può applicare, in questo caso, anche la sanzione dell’interdizione dall’esercizio dell’attività, che rientra tra le “sanzioni interdittive” previste dal Decreto 231 e che sono considerate univocamente dalla dottrina fra le più impattanti sull’ente e sulla sua attività economica.

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