TWITTER & MUSK: una lunga storia (d’amore?)

La vicenda più controversa, discussa ed avvincente del 2022, capace di tenere tutto il mondo col fiato sospeso? Senza dubbio “Twitter – Musk”.

Elon Musk, imprenditore sudafricano patron di Tesla e SpaceX, è un “twitteriano” della prima ora: la sua adesione risale al 2009, solo tre anni dopo il lancio del social, e da allora non ha mai smesso di usarlo, fino a diventarne CEO lo scorso ottobre, al motto di “Let that sink in”.

Innovativo ed eccentrico – certamente uno dei personaggi più controversi della nostra epoca – Musk ha da ormai quasi 15 anni eletto Twitter come il suo canale “ufficiale” per comunicare con il mondo, non solo da imprenditore ma anche come privato cittadino.

Alcuni dei suoi tweet sono ormai passati alla storia (non sempre per essersi rivelati idee geniali).

È il caso di quello in cui affermava che le azioni di Tesla valessero troppo. Poche ore dopo, il valore delle azioni era crollato drasticamente.

O quello in cui inneggiava al bombardamento di Marte (già nel 2015 aveva affermato in una intervista che l’unico modo per rendere il pianeta rosso abitabile fosse bombardarlo con armi termonucleari).

Famose anche i suoi tweet di dissenso nei confronti delle misure anti Covid-19 attuate negli USA, in particolar modo in California – culminate poi nello spostamento della sede di Tesla in Texas.

CRONISTORIA

Dallo scorso 27 ottobre Elon Musk è il nuovo CEO di Twitter.

Ma partiamo dall’inizio..

GENNAIO: a fronte del suo decennale amore per il social dell’uccellino, all’inizio dell’anno Musk comincia una vera e propria “corsa alle azioni” della società.

MARZO: lo “shopping sfrenato” lo porta a detenere oltre il 9% delle azioni di Twitter, rendendolo di fatto il maggiore azionista individuale della società. È a questo punto che il caso diventa pubblico e scoppia a livello mediatico.

APRILE: a fronte di una tale evidenza, viene offerto a Musk un posto d’onore in seno al Consiglio di Amministrazione della società. L’offerta viene tuttavia rifiutata.

A rendere pubblica la rinuncia – che pare essere pervenuta ai vertici nello stesso giorno in cui la nuova composizione del CdA avrebbe dovuto riunirsi – è Parag Agrawal, l’allora CEO.

Solo qualche giorno dopo “il gran rifiuto” viene rivelata la notizia secondo la quale Musk si sarebbe offerto di acquistare la società per la stratosferica cifra di 44 miliardi di dollari.

È a questo punto che il CdA fa la sua mossa, adottando all’unanimità una soluzione per contrastare l’acquisizione, la cd. poison pill – (letteralmente, pillola avvelenata) nota strategia delle società quotate spesso usata per contrastare l’acquisto di una intera società da parte di un singolo azionista. In buona sostanza, attraverso un aumento di capitale vengono create in maniera artificiale nuove azioni da offrire a prezzo di saldo agli altri stakeholders. In tal modo si raggiunge il duplice risultato di (i) far salire il valore delle singole azioni e (ii) far scendere la percentuale di azioni possedute dal potenziale compratore.

Nonostante la predisposizione del piano “letale”, viene comunque raggiunto un accordo: Musk comprerà Twitter per la cifra pattuita. A tal fine, oltre 8 miliardi di dollari di azioni Tesla vengono vendute per finanziare l’acquisto.

MAGGIO:l’accordo subisce una battuta di arresto. Il patron di Tesla nutre forti preoccupazioni in merito all’effettivo numero di utenti fake presenti sulla piattaforma, e chiede pertanto maggiori (e comprovate) rassicurazioni a riguardo.

LUGLIO: come conseguenza del silenzio di Twitter, il piano di acquisizione rischia di saltare. Il papà di Tesla e Space X (ma anche di X Æ A-12) afferma pubblicamente le sue intenzioni di abbandonare l’offerta.

Il dietrofront genera una durissima reazione da parte della società, che decide di fare causa al magnare sudafricano.

Un giudice del Delaware viene investito della controversia. La data di inizio del processo viene fissata al 17 ottobre.

AGOSTO: in seguito alle dichiarazioni di Pieter Zatko (ex capo della sicurezza di Twitter) circa la sistematica noncuranza della società al problema dei bot e degli account falsi – e, più in generale, della sicurezza informativa – Musk decide di inserirlo nella lista delle persone da far salire al banco dei testimoni. Ci si prepara al processo.

OTTOBRE: dopo i fatti dell’estate, vengono nuovamente (ed incredibilmente) stravolte le carte in tavola. Musk si offre di mantener fede alla sua proposta iniziale (e cioè l’acquisto del social per 44 miliardi di dollari) e Twitter si dichiara pronto ad accettare.

Per decisione dell’autorità giudiziaria il processo viene quindi rinviato a novembre. Viene così concessa ad entrambe le parti una nuova deadline per raggiungere una soluzione condivisa: il 28 ottobre è il termine ultimo per trovare un accordo.

A due giorni dalla scadenza del termine viene pubblicato un video nel quale è possibile vedere Musk entrare nel quartier generale di Twitter portando con sé un lavello da cucina (il “let that SINK (lavello) in” di cui alla foto sopra). Gli osservatori interpretano il gesto come un bizzarro, ma positivo, presagio. In perfetto stile Elon Musk.

Nel pomeriggio del 27 ottobre, solo qualche ora prima del gong, arriva la notizia: l’acquisto è stato completato.

The bird is freed”, “l’uccellino è stato liberato”. Questo il primo tweet di Musk nelle vesti di nuovo CEO.

UNA NUOVA ERA

Dopo aver epurato il vertice di Twitter dai suoi dirigenti – tra gli altri, proprio (e ovviamente) il CEO Parag Agrawal, oltre al responsabile legale con cui aveva anche avuto degli screzi in precedenza – tocca ai dipendenti: con una semplice e-mail viene comunicato a 3.500 lavoratori della compagnia (il 50% del totale!) che non c’è più spazio per loro in società.

Una class action è attualmente radicata presso il Tribunale di San Francisco per violazione del periodo di preavviso di 60 giorni previsto dalla normativa californiana in materia di licenziamento.

Il maxi-licenziamento, che precede solo di qualche giorno quello ancor più disastroso di Facebook (si parla a riguardo del più grande licenziamento della storia delle big tech, circa 11.000 persone) ha chiaramente toccato la sensibilità di tutti gli osservatori.

Ma non finisce qui!

Ad aggravare la situazione arriva una lettera aperta dell’Alto Commissario dell’ONU, Volker Türk, in cui viene invocato il rispetto dei diritti umani.

Il timore concreto è che le nette posizioni del nuovo CEO in materia di (massima ed estrema) libertà di espressione possano avallare pericolose e gravissime pratiche, come quella dell’hate speech.

È evidente che la nuova era di Twitter non sia partita nel migliore dei modi. Come andrà a finire?

I dati (personali) dei defunti: quale privacy?

Cosa accade ai nostri dati quando non ci siamo più?

Quali sono i diritti legati ai contenuti di persone decedute?

Il Regolamento europeo sulla Protezione dei Dati Personali (“GDPR” o “Regolamento”) si applica anche alle persone decedute?

Normativa applicabile

Il Considerando n. 27 del GDPR esclude l’applicazione del Regolamento ai dati delle persone decedute; ma è presente una clausola di salvaguardia, subito dopo, che prevede la facoltà, per gli Stati membri dell’Unione europea, di emanare norme per regolare il trattamento di questi dati personali.

In Italia è l’art. 2-terdecies del D. Lgs. 196/2003, aggiornato dal D. Lgs 101/2018 (“Nuovo Codice Privacy”) a prevedere che i diritti spettanti agli interessati ai sensi degli artt. 15-22 GDPR (cioè l’accesso, la cancellazione, le limitazioni al trattamento, la portabilità dei dati – da qui in avanti “i diritti dell’interessato”) che si riferiscono ai dati personali riguardanti le persone decedute, possono essere esercitati (i) da chi ha un interesse proprio, o (ii)  agisce a tutela dell’interessato, (iii) in qualità di suo mandatario, o (iv) per ragioni familiari meritevoli di protezione.

L’esercizio di questi diritti non è ammesso, oltre che nei casi previsti dalla legge, quando l’interessato ne ha espressamente fatto divieto con dichiarazione scritta presentata o comunicata al Titolare del trattamento.

La volontà di vietare l’esercizio dei diritti dell’interessato deve risultare in modo non equivoco e deve essere specifica, libera e informata, e può riguardare anche solo l’esercizio di alcuni dei diritti dell’interessato.

In ogni caso, il divieto non può produrre effetti pregiudizievoli per l’esercizio, da parte dei terzi, dei diritti patrimoniali che derivano dalla morte dell’interessato, e non può impedire loro di difendere in giudizio i propri interessi.

Giurisprudenza

Fino a qui si è risposto ad alcune delle domande iniziali.

Ma sembra ora interessante, per vedere effettivamente cosa accade ai dati personali dopo il decesso di una persona, raccontare anche una recente sentenza sul tema.

Il 10 febbraio 2021, il Tribunale di Milano, in via cautelare, ha ordinato ad Apple Italia S.r.l. di fornire al figlio – ricorrente – i dati di una persona deceduta – il padre. Il Tribunale di Milano ha ritenuto illegittima la pretesa di Apple, fondata su norme americane in materia di sicurezza, che negava tale accesso.

Infatti, l’art. 2-terdecies del Nuovo Codice Privacy demanda alla persona la scelta, in vita, di lasciare o meno agli eredi la facoltà di accedere ai propri dati, e, in assenza di un espresso divieto, attribuisce agli eredi, o a chi agisce per “ragioni familiari meritevoli di protezione” l’esercizio dei diritti del defunto.

Il giudice di Milano ha ritenuto esistente anche un legittimo interesse da parte dei genitori, che prevale sulla sicurezza dei clienti opposta da Apple.

Qui il link diretto alla Sentenza.

Massime del Garante Privacy

Sembra infine utile concludere con qualche pillola sul tema, che è trasversale a diverse materie, dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali italiana:

  • In tema di contratti bancari estinti dopo la morte di una persona, il relativo erede ha il diritto di accedere a tutti i dati personali concernenti il “de cuius”, ivi comprese le informazioni attinenti a pregressi rapporti obbligatori di cui egli sia stato contitolare- Garante 3 aprile 2002, in Bollettino n. 27, pag. 20 [doc. web n. 1065256]; e ancora l´erede ha diritto di conoscere tutti i dati personali riferiti al suo dante causa e detenuti da un istituto di credito. – Garante 10 dicembre 2003 [doc. web n. 1053648].
  • In tema di assicurazioni, il Titolare del trattamento è tenuto ad estrarre dagli atti e dai documenti detenuti – ivi comprese le polizze eventualmente sottoscritte – tutte le informazioni personali relative al defunto, mettendole a disposizione, in modo intelligibile, dell’erede, con esclusione dei dati relativi ai terzi beneficiari della polizza assicurativa Garante 31 marzo 2003 [doc. web n. 1053796].
  • In tema di atti giudiziari, il discendente del defunto ha pieno titolo ad accedere ai dati personali del “de cuius” a prescindere dalla concreta posizione attualmente rivestita in ambito successorio, senza che l’esercizio di tale diritto possa essere condizionato alla prova della qualità di chiamato all´eredità o all´esibizione di particolari documenti, quale la procura notarile rilasciata dagli eventuali altri eredi – Garante 19 novembre 2003 [doc. web n. 1152385].

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La tutela dei consumatori nella pubblicità, tra privacy e concorrenza

I mondi della privacy e della concorrenza, se osservati nell’ottica del fare e ricevere pubblicità, sono spesso legati da un denominatore comune: la tutela dei consumatori.

I diritti elencati nel Codice del Consumo – tra i quali figurano la salute e la sicurezza, gli interessi economici, il diritto all’informazione e ad adeguate istruzioni, il diritto al risarcimento, alla rappresentanza e alla partecipazione – rappresentano dei veri e propri diritti soggettivi, garantiti nella tutela individuale e collettiva.

Privacy e concorrenza

Tra i rimedi di natura amministrativa posti a presidio dei consumatori esistono, in particolare, due principali strumenti a fronte di violazioni della privacy che trascendono in pratiche di concorrenza sleale: rivolgersi al Garante privacy, oppure adire l’Autorità Antitrust.

Le due vie si trovano spesso ad intrecciarsi e a far collidere il mondo dei diritti individuali, in particolare quelli relativi alla protezione dei dati personali, con quello della tutela del singolo nel settore della concorrenza e dei mercati.

In questo senso, l’Avvocato generale dell’Unione europea – che formulerà prossimamente le sue conclusioni nel corso del procedimento C-252/21 – in armonia tra l’altro con le decisioni sia del Consiglio di Stato (Sent. 2630 e 2631 del 2021) che del Tar Lazio (Sent. 260 e 261 del 2020), ha proposto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di affermare che per valutare una violazione della concorrenza, l’Autorità antitrust possa incidentalmente indagare se una prassi imprenditoriale sia conforme o meno al GDPR.

Se così decidesse anche la Corte, dal punto di vista delle imprese si porrebbe il necessario tema di (ri)verificare la modulistica contrattuale a disposizione, secondo un doppio parametro di giudizio: la condotta di prevedere all’interno di contratti commerciali delle condizioni di utilizzo di servizi in violazione del GDPR diverrebbe, infatti, censurabile sia dalpunto di vista delle tutele del consumatore sia da quello delle tutele dell’interessato come soggetto passivo in ambito privacy.

Pubblicità

Il caso citato riguarda in effetti Facebook Ireland Ltd. (e la propria controllata locale tedesca), ed in particolare le attività pubblicitarie effettuate a mezzo di Instagram con il supporto dei c.d. “Strumenti di Facebook Business”, in relazione ad un caso in cui è in corso la valutazione dell’abuso di posizione dominante a carico del social network in blu anche in relazione ai dati personali raccolti dagli utenti privati (consumatori), per poi proporre loro pubblicità targettizzate.

In questo senso, si rileva una scelta in senso opposto da parte di Google Italy, che ha di recente annunciato il proprio ingresso nell’italianissimo Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (“IAP”) come socio ordinario (qui la notizia).

Google si è così impegnato, accettando il Codice di autodisciplina elaborato dall’Iap, a promuovere una pubblicità più responsabile e sostenibile.

Con questa scelta il principale gestore dei sistemi di advertising online si sottopone ad un quadro di tutela spontanea, anche preventiva, di cui i consumatori fruiranno rispetto alle comunicazioni al pubblico che vengono quotidianamente veicolate dalla piattaforma.

L’ampia eco dell’azione di Google, secondo diversi esperti, non tarderà ad essere avvertita: è una tappa fondamentale nella diffusione nel mondo del web dell’Autodisciplina e dell’enforcement della tutela degli utenti e dei consumatori.

Una riflessione a margine

Oggi più che mai è impensabile fare pubblicità senza dati: diventa allora sempre più importante che ciò avvenga con il rispetto sia delle norme stabilite nel GDPR (e per noi nel Codice privacy) che nella normativa sulla concorrenza e, verso i singoli, nel Codice del Consumo.

La sfida diventa allora, in altri termini, quella di saper conciliare le numerose possibilità offerte dalla tecnologia per la realizzazione e la diffusione di pubblicità mirate con il rispetto delle regole, e delle conoscenze, giuridiche e tecniche.

Soprattutto sarà sempre più rilevante – ed evidente – l’intenzione (o meno) di rinunciare, da parte di ciascuna azienda, a soluzioni apparentemente “semplici” e di grande effetto, come lo sfruttamento di informazioni sui consumatori acquisite con metodi non corretti, che però urtano contro i principi posti a tutela dei dati personali e possono diventare fonte di sanzione anche in ambito di pubblicità e concorrenza.

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Immagine di copertina powered by Dall-E 2 (artist AI + @mpedruzzi)

Novità in materia Smart Working: il 31 agosto (al momento) è la data.

Il prossimo 31 agosto la versione “emergenziale” dello smart working cesserà.

Con la fine del periodo emergenziale tramonterà anche il periodo “di favore” concesso alle aziende private allo scopo di fornire un accesso allo smart working – o, abbandonando ogni inglesismo, al cd. “lavoro agile” – semplificato dal punto di vista procedurale.

Nel corso degli ultimi due anni, infatti, l’accesso a tale modalità di lavoro è avvenuta attraverso un iter estremamente celere e scorrevole, rivelandosi sufficiente l’invio al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di apposito modulo contenente l’elencazione di tutti i lavoratori dell’azienda coinvolti nel passaggio di modalità.

Quindi, dal 1° settembre 2022 toneranno in vigore le regole dettate dalla legge n. 81/2017, integrate da quanto in ultimo stabilito dal “Protocollo nazionale sul lavoro in lavoro agile” del 7 dicembre 2021.

Già lo scorso marzo eravamo intervenuti sul tema con l’approfondimento “Lo smart working: nuova normalità”.

Tuttavia, alla luce dell’imminente cambio di normativa, ci sembra opportuno rispolverarne i passaggi fondamentali.

Nell’ultimo paragrafo, invece, trovate le attività concrete e operative da effettuare prima del 31 agosto, al fine di continuare ad accedere al “lavoro agile” correttamente.

Legge 81/2017

La legge 22 maggio 2017, n. 81 reca – al capo II e con l’obiettivo di bilanciare le esigenze private e professionali del lavoratore – disposizioni in materia di lavoro agile, per tale intendendosi una modalità di lavoro flessibile, caratterizzata dall’assenza di particolari vincoli in termini di luogo e di orari di lavoro. 

Rispetto alla procedura semplificata di matrice emergenziale, la legge sul lavoro agile risulta sicuramente più rigida e vincolante: la comunicazione complessiva dei nominativi sarà soppiantata dalla sottoscrizione di un accordo individuale con ciascuno dei lavoratori coinvolti.

Vincoli vengono poi imposti al datore di lavoro anche per quanto riguarda il contenuto di tale accordo.

Dovrà infatti figurare nel testo:

  • la previsione di tempi di riposo del lavoratore e diritto alla sua disconnessione (art. 19);
  • la previsione del diritto recesso dall’accordo (art. 19, secondo comma);
  •  una garanzia di un trattamento economico e normativo non inferiore a quello applicato ai colleghi che eseguono le mansioni in modalità ordinaria (art. 20);
  • la disciplina poteri di controllo del datore di lavoro ex art.4 Statuto dei lavoratori (art.21).

Il datore di lavoro, inoltre, deve inoltre fornire al lavoratore agile una informativa scritta per la sicurezza, una tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali per rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dell’azienda, nonché una tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto.

Protocollo Nazionale sul Lavoro Agile

Ad integrare la normativa è intervenuto, lo scorso 7 dicembre, il Protocollo nazionale sul lavoro agile, dettando regole e vincoli ulteriori.

Innanzitutto, vengono individuate informazioni aggiuntive da inserire nell’accordo di cui alla legge n.81/2017. Tra queste figurano, tra le altre, la durata dell’accordo e i luoghi eventualmente esclusi ai fini della prestazione lavorativa, l’alternanza con periodi di lavoro in sede e gli strumenti di lavoro, nonché i tempi di riposo e le forme di esercizio dei diritti sindacali.

Ribadisce inoltre gli elementi caratterizzanti il lavoro agile:

  • l’assenza di un preciso orario di lavoro (art.3);
  • il rispetto della normativa relativa alla protezione dei dati personali (art.12);
  • la libertà del lavoratore di scegliere il luogo in cui svolgere la prestazione lavorativa (art.4);
  • la fornitura, di regola, da parte del datore di lavoro di tutta la strumentazione tecnologica e informatica necessaria allo svolgimento della prestazione lavorativa (art.5);

Suggerimenti operativi

Per un passaggio lineare allo smart working – o per un suo mantenimento, laddove sia attualmente attivo –, un primo aspetto da tenere ben in conto attiene alla comunicazione: è difatti importantissimo avvisare i lavoratori di tale possibilità, preferibilmente attraverso l’organizzazione di incontri di approfondimento, finalizzati anche a comprendere, tra le altre cose, le preferenze e le disponibilità per quanto riguarda la il numero di giornate lavorative da destinarsi all’una o all’altra modalità di lavoro.

Allo stesso modo, particolare attenzione va riservata alla gestione della contrattazione individuale. Ogni lavoratore è difatti portatore di esigenze e desideri diversi, che diversamente impattano sulla buona riuscita del progetto.

Dovranno pertanto essere attentamente analizzati i bisogni di ciascun lavoratore, in modo tale da garantire che l’obiettivo fissato dal Legislatore – bilanciamento vita privata/lavoro, ma anche incremento della produttività – venga efficacemente raggiunto.

Alla luce di quanto detto, appare evidente che gli aspetti da tenere in conto sono numerosi e diversi, che non si limitano al solo ambito della normativa lavoristica ma ricomprendono anche aspetti privacy e sicurezza sul lavoro.

Al di là dei singoli accordi individuali, è consigliato – anzi, quasi necessario – stilare un regolamento interno che riporti le logiche aziendali poste alla base dell’organizzazione dello smart working nonché predisporre e/o revisionare il regolamento d’uso degli strumenti aziendali e il codice disciplinare.

Per questa ragione, il suggerimento è quello di coinvolgere, sempre e sin dall’inizio, tutti i consulenti e i referenti aziendali di volta in volta interessati dall’innovazione o cambiamento, in modo tale staccarsi sempre più dal concetto di “emergenza”, rendendo sempre più “normale” il ricorso a questa forma agile di lavoro.

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Organismo di Vigilanza: compiti, requisiti e responsabilità

L’organismo di vigilanza è un organo introdotto nel nostro ordinamento dal D. Lgs. 231/ 2001– che lo scorso 8 giugno ha compiuto 21 anni, diventando così maggiorenne in tutti gli stati del mondo – istituito al fine di vigilare sulla corretta applicazione del modello di organizzazione, gestione e controllo (cd. MOGC) e dei protocolli in esso previsti, in tutti quei casi in cui gli operatori imprenditoriali decidano di dotarsene.

È importante ricordare, infatti, che l’adozione del modello di organizzazione e gestione e la correlata istituzione di un organismo di vigilanza (anche “OdV”) sono rimesse alla facoltà di ciascuna entità produttiva; il legislatore lascia dunque loro piena libertà di decidere se equipaggiarsi o meno di questi strumenti di compliance.

L’OdV riveste nel panorama aziendale un ruolo centrale ed insostituibile: soltanto laddove questo funzioni in maniera corretta – attraverso una scrupolosa attività di vigilanza sull’osservazione del modello e di aggiornamento dello stesso, ove necessario – la società che lo ha nominato sarà in grado di ottenere l’esimente prevista dall’art. 6 del Decreto 231 in relazione ai reati-presupposto commessi da soggetti operanti al suo interno.

Cosa ci dice l’articolo 6

L’art. 6 comma 1, lettere b) e d) del D. Lgs 231/2001 stabilisce che l’ente può essere esonerato dalla responsabilità conseguente alla commissione di illeciti da parte di un dipendente – apicale o sottoposto – se:

  • prova che “il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo” e
  • non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo”.

Già dai primi articoli il Decreto esprime in maniera chiara ed evidente la necessità che il modello, una volta adottato, non rimanga relegato allo stato di mero adempimento formale.

La corretta attuazione del MOGC passa, come è evidente, inevitabilmente attraverso una costante attività di controllo e vigilanza dei protocolli e delle procedure in esso previste, nonché di adeguamento laddove le stesso dovessero risultare in corso d’opera inadeguate al perseguimento degli obiettivi di tutela fissati dalla normativa 231.

Affinché tali attività vengano svolte nel migliore dei modi dall’OdV, la legge richiede la sussistenza nei suoi (o nel suo, a seconda dei casi) membri di particolari requisiti.

Composizione: monocratica o collegiale?

La legge non fornisce precise indicazioni per quanto concerne la composizione dell’OdV; agli operatori del settore è dunque demandata la scelta di optare tra un organismo monocratico o collegiale.

Sebbene la scelta sia sostanzialmente libera, è prassi consolidata quella di optare per un organismo collegiale (formato da componenti interni o esterni all’ente), soprattutto nelle strutture aziendali di grandi dimensioni e maggiormente articolate.

In questi casi, se l’ente ha natura di società di capitali, l’art. 6 del Decreto 231 comma 4 bis, il ruolo di OdV può essere ricoperto dal collegio sindacale, dal consiglio di sorveglianza e dal comitato per il controllo della gestione.

La scelta deve, in altre parole, sempre rispecchiare la complessità delle attività che l’organismo è chiamato a gestire: se optare per un Organismo di Vigilanza monocratico risulterebbe delicato e foriero di problematiche per una multinazionale, potrebbe certamente essere la soluzione ottimale per una piccola impresa in cui l’organizzazione interna non è particolarmente strutturata.

Proprio per tali ragioni, l’art. 6 comma 4 prevede la possibilità che nelle piccole imprese sia addirittura lo stesso organo dirigente a ricoprire il ruolo di OdV.

Requisiti

In considerazione delle delicate funzioni che la legge demanda alla competenza dell’Organismo di Vigilanza, si richiedere che i suoi membri siano dotati di particolari requisiti, elaborati dalla giurisprudenza sulla base di quanto espresso nel decreto 231.

Autonomia e indipendenza: la posizione dell’organismo di vigilanza deve essere tale da garantire un’azione di controllo autonoma, ossia svincolata da ogni forma di condizionamento proveniente da componenti dell’ente, in particolare dall’organo dirigente (che, al contrario, è uno dei soggetti controllati).

L’organismo deve inoltre essere personalmente ed economicamente indipendente: non deve cioè versare in condizioni di conflitto di interesse, nemmeno potenziali.

È chiaro che, quanto più l’organismo sia composto da soggetti estranei all’organizzazione, tanto maggiore sarà il suo grado di autonomia ed indipendenza globale.

A livello giurisprudenziale si è poi consolidata una posizione per cui, perché possa parlarsi di autonomia ed indipendenza dell’organismo deputato alla vigilanza del modello 231, non debba sussistere alcun tipo di sovrapposizione tra soggetto controllato e organo controllante.

Tale principio è stato messo nero su bianco anche nelle sentenze che hanno definito il caso (tragicamente famoso) dell’incidente avvenuto nello stabilimento torinese delle acciaierie Thyssenkrupp.

Professionalità: tale requisito, (elaborato da Tribunale di Napoli con sentenza del 26 giugno 2007) richiede che l’OdV sia dotato di specifiche competenze e conoscenze tecniche idonee a garantire un controllo adeguato.

Visti gli evidenti punti di contatto della normativa 231 con elementi di diritto penale, uno dei componenti dell’OdV dovrebbe preferibilmente essere un esperto della materia.

• Continuità di azione: l’OdV deve essere strutturato in maniera tale da garantire una attività di controllo costante e continuata, tale da garantire modifiche puntuali al modello ogni qual volta ciò risulti necessario in relazione a quello che è lo sviluppo della realtà aziendale che il modello è chiamato a regolare.

Compiti e responsabilità

I poteri, i compiti e le responsabilità affidati dalla normativa vigente alle cure dell’OdV sono tutti indirizzati alla prevenzione della commissione di reatipresupposto da parte dell’organizzazione che lo ha nominato e si sostanziano essenzialmente in attività tipo consultivo, proposito e di impulso, tra cui (a titolo esemplificativo e non esaustivo):

  • vigilare sulla corretta applicazione del modello;
  • curare l’aggiornamento e l’implementazione dello stesso, ove necessario;
  • verificare la diffusione del modello in ambito aziendale;
  • analizzare i flussi informativi;
  • svolgere audit.

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Il prossimo “Privacy Shield”: avvenimenti, criticità e possibilità aperte

Alla luce della novità di ieri, con il Garante italiano che ha – allineandosi ad altri “colleghi” europei – sanzionato l’uso di Google Analytics per il trasferimento di dati verso gli USA, ritenuto non conforme a GDPR, riteniamo molto interessante tornare sul tema degli accordi transatlantici USA-UE per (provare a) rendere lecita l’attività che coinvolge fornitori americani.

Gli avvenimenti principali: Max Schrems e la Corte di Giustizia UE

Il “Privacy Shield”, che permetteva il trasferimento di dati personali fra Unione europea e gli Stati Uniti, era un meccanismo approvato dall’Unione europea in seguito all’abolizione – sempre per mano della Corte di Giustizia UE – del suo predecessore, il “EU-USA Safe Harbour”.

Entrambi gli accordi definivano gli Stati Uniti come un Paese verso cui è possibile effettuare, secondo certe condizioni, un trasferimento dei dati di cittadini europei e/o persone comunque soggette alla normativa UE: ciò fino all’incontro-scontro con Max Schrems, giovane avvocato e attivista austriaco, che da anni sfida le politiche di trasferimento di dati verso gli USA attuate, in particolare, nell’ambito del social network “Facebook”.

Nel 2011, Max Schrems, dopo aver assistito a una lezione, in un’università della California, tenuta dal privacy lawyer di Facebook, si è reso conto che le politiche del social network non tutelavano la privacy degli utenti, e ha scaricato una copia da Facebook dei dati che lo riguardavano, in possesso della piattaforma. L’allora studente di legge ha trovato oltre 1.200 pagine di informazioni sul suo conto, contenenti anche tutti i messaggi scambiati sulla piattaforma, compresi quelli cancellati.

È iniziata così la battaglia legale, alla quale si sono aggiunte, in modo decisivo, nel 2013, le rilevazioni di Edward Snowden, ex tecnico della CIA, secondo cui anche il governo degli Stati Uniti poteva avere accesso ai dati di Facebook, e non solo i gestori del social.

La prima vittoria di Schrems è del 2015, quando la Commissione europea ha smantellato la struttura del Safe Harbour. Ma l’attivista ha proseguito ancora, e nel luglio 2020 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha emesso una nuova sentenza che ha abbattuto anche il Privacy Shield.

Max Schrems, nel frattempo, ha anche fondato una organizzazione no profit (“NOYB”, “None Of Your business”).

Cos’è rimasto in piedi dell’impianto legislativo per il trasferimento dei dati personali europei negli Stati Uniti?

La Corte di Giustizia, in relazione agli artt. 7 8 e 47 della carta di Nizza, in materia di protezione dei dati, su è espressa in merito alla normativa che imponeva a Facebook di mettere a disposizione delle agenzie di Intelligence americane i dati personali trasferiti, o quelli che Facebook raccoglieva dagli utenti.

In particolare, l’art 702 del FISA (“Foreign Intelligence Surveillance Act”) consente al Procuratore e al Direttore dell’Intelligence americana di autorizzare congiuntamente, previa approvazione della Corte ad hoc FISA, la sorveglianza di specifici utenti e dati mediante programmi di sorveglianza come PRISM e UPSTREAM. La Corte di Giustizia UE ha valutato anche la portata dell’Executive Order n. 12333, che consente alla NSA (“National Security Agency”) di accedere ai cavi sottomarini posti sotto l’atlantico (“dorsali di internet”) e di raggiungere i dati personali prima che essi arrivino negli Stati Uniti.

Il diritto degli Stati Uniti, secondo la sentenza della Corte di Giustizia, non prevede garanzie e limitazioni sui dati personali rispetto alle ingerenze autorizzate dalla sua normativa nazionale, e non assicura una tutela giurisdizionale effettiva degli interessati contro queste ingerenze. Restano tecnicamente validi, comunque, dopo la sentenza della Corte, tutti gli strumenti alternativi alla decisione della commissione europea, in particolare le Clausole Contrattuali Standard (in versione 2021) e le norme vincolanti di impresa (“Binding Corporate Rules”), seppure queste ultime siano utili solo a grandi (e poche) multinazionali.

Sono strumenti che non possono essere adottati solo formalmente: è necessario infatti che il Titolare del trattamento svolga sempre una valutazione caso per caso, in modo da assicurare mediante misure di sicurezza e misure supplementari che la normativa statunitense non interferisca con la protezione dei dati personali garantita dal GDPR. Se, alla fine di questa valutazione, il Titolare ritiene che non vi siano ancora adeguate garanzie, deve sospendere o porre fine al trattamento di dati personali verso gli USA.

È possibile allora ipotizzare un nuovo Privacy Shield?

Prendendo le mosse da ragionamenti di carattere storico, dato che già il primo Safe Harbour che esisteva fra Unione europea e Stati Uniti venne dichiarato invalido dalla CGUE e successivamente si arrivò a un altro compromesso, potenzialmente si potrebbe giungere a un altro accordo.

Il rischio concreto è che, per conflitto di normative interne, ora non si riescano mai a raggiungere gli standard di sicurezza previsti dall’unione europea: ciò seppure, rispetto al passato, si stanno comunque compiendo dei notevoli passi avanti, grazie ai meccanismi di cooperazione fra le Autorità Garanti europee e con l’interlocuzione tra Commissione UE e governo USA.

Ad esempio, è stato pubblicata una nuova versione delle Clausole Contrattuali Standard, che rivedono un meccanismo di trasferimento dei dati rimasto un po’ “abbandonato” negli anni, in quanto ancora riferito alla Direttiva del 1995 anche dopo l’avvento del GDPR; anche la pubblicazione da parte dell’EDPB delle Linee guida sul Trasferimento internazionale dei dati personali ha rappresentato, a parere degli esperti, una preziosa fonte di indicazioni e istruzioni, anche tecniche, per limitare i rischi e adeguare i trattamenti che comportano trasferimenti.

Rimane certa, per ora, la necessità di adottare un approccio concreto e non teorico nel trasferimento dei dati personali, valutando caso per caso con adempimenti come un attento data mapping e una valutazione relativa al trasferimento dei dati (c.d. “TIA”) quali potrebbero essere i rischi derivanti dal trasferimento di dati personali extra UE, valutando anche le misure alternative o le misure tecniche per rendere il trattamento il più possibile rispettoso dei diritti e delle libertà degli interessati.

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Richiesta di accesso ai dati manifestamente infondata o eccessiva: quando il Titolare può dire “no”

“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, usava dire lo zio Ben a Peter Parker / Spiderman.

Ed è evidente, se si tiene a mente tutto ciò, che un Titolare del trattamento è spesso chiamato a porsi, e poi attuare, una lunga lista di obblighi e responsabilità.

Tra di esse hanno una posizione di assoluto rilievo le misure necessarie a fornire all’interessato le informazioni relative ai trattamenti gestiti, prendersi carico dei diritti (accesso, rettifica, cancellazione e limitazione del trattamento) tra cui la portabilità dei dati e l’opposizione al trattamento.

In questo quadro, si rimane particolarmente colpiti quando ci si imbatte in uno di quei casi in cui il Titolare ha potuto legittimamente negare l’accesso ai dati di un interessato.

A fronte delle tutele previste per l’accesso ai dati personali dell’interessato, e in particolare, dagli artt. 15-22 GDPR, la Corte di Norimberga ha infatti ritenuto prevalente, ai sensi dell’art. 12(5) GDPR, il diritto del Titolare a non dare seguito a richieste manifestamente infondate o eccessive.

I fatti

Il Titolare del trattamento è una società di assicurazione privata, con cui l’interessato ha stipulato un contratto di copertura assicurativa.

Le parti hanno dato avvio a una controversia legata alla supposta invalidità – invocata dall’assicurato – di diversi aumenti del premio che si erano succeduti nel periodo di vigenza del contratto.

L’interessato ha così adito la Corte Regionale di Ansbach per il rimborso dei premi pagati in eccesso, e ha contestualmente inviato una richiesta di accesso ai dati personali al Titolare del trattamento, avente ad oggetto tutte le informazioni sugli aggiustamenti occorsi ai premi effettuati, con gli aggiornamenti alle polizze assicurative, i supplementi alle stesse e tutte le lettere di notifica inviate, nel tempo, al soggetto interessato.

Il Titolare, a tale richiesta, ha opposto il proprio diniego.

La decisione

La Corte Regionale di Norimberga ha considerato che lo scopo della richiesta dell’assicurato non fosse quella di verificare la legittimità del trattamento dei dati che lo riguardavano, ma piuttosto quella di controllare se gli aggiustamenti fatti ai premi assicurativi fossero adeguati alla legge tedesca.

Pertanto, la Corte ha ritenuto che l’istanza presentata fosse manifestamente eccessiva, e ha stabilito che un Titolare può legittimamente rifiutarsi di ottemperare a una tale richiesta di accesso ai dati, ai sensi dell’art. 12(5)(b) del GDPR.

La decisione può dare spunto per una riflessione su cosa costituisca una richiesta “manifestamente eccessiva” e, più in generale, un “abuso” del diritto di accesso ai dati personali.

Sul punto, la Corte ha fatto riferimento allo scopo dell’art. 15 GDPR, che va letto congiuntamente e in armonia con il Considerando 63.

Dalla lettura delle due disposizioni, infatti, si può constatare che l’accesso ai dati personali concesso all’interessato ha, in generale, come obiettivo quello di permettere che il soggetto sia consapevole del trattamento dei dati, e possa verificarne la legittimità – obiettivi, entrambi, non presenti nell’intenzione dell’interessato nel caso proposto.

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Le pratiche commerciali scorrette nei provvedimenti dell’AGCM

Una pratica commerciale “scorretta” viola i principi fondamentali previsti dal Codice del Consumo e quelli in materia di comunicazioni commerciali.

Ciò potrebbe avvenire (più o meno consapevolmente) per massimizzare i ricavi di un negozio online; o potrebbe accadere semplicemente per mancanza di chiarezza delle informazioni presentate su un sito; potrebbe infine essere idonea a fuorviare, condizionandolo, il comportamento del consumatore.

È una tematica posta spesso all’attenzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (“AGCM”): è allora utile tenere sempre in particolare considerazione gli orientamenti e le posizioni prevalenti, mostrate dall’esperienza e dalle decisioni contenziose, non solo per evitare verifiche ed eventuali provvedimenti ma anche, e soprattutto, per offrire ai consumatori un acquisto trasparente e rispettoso dei loro diritti.

In generale, una pratica commerciale è scorretta quando, in contrasto con il principio della diligenza professionale, è falsa o è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore che raggiunge, o al quale è comunque rivolta (art. 20 D. Lgs. 206/2005).

La disciplina si applica alle pratiche commerciali scorrette poste in essere sia prima, che durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto.

La legge suddivide le pratiche commerciali in due categorie: quelle ingannevoli e quelle aggressive.

Quali sono le pratiche commerciali “ingannevoli”? (art. 21 Codice del Consumo)

Alcune azioni considerate ingannevoli dall’AGCM sono, ad esempio:

  • quelle che assimilano gli effetti di un prodotto alimentare a quelli attribuibili alle funzioni di un farmaco, avvalendosi di etichette non autorizzate dalla Commissione europea;
  • la diffusione di informazioni non veritiere in merito alla capacità di memoria di prodotti software;
  • la creazione di indebita confusione tra cosmetici e trattamenti di medicina estetica mediante testi e immagini evocative.

Anche certe omissioni sono state sanzionate come “pratiche ingannevoli” dall’AGCM:

  • l’assenza di indicazioni puntuali sul tasso annuo effettivo globale (“TAEG”), in quanto non veniva consentito al consumatore di effettuare un’adeguata valutazione sulla convenienza effettiva di un’offerta finanziaria;
  • l’assenza, nei siti online che offrono servizi di comparazione dei prezzi e di prenotazione voli, di informazioni chiare, trasparenti e immediate sul reale costo del prodotto desiderato e su tutto ciò che è utile per orientare la scelta.

Esiste, poi, un elenco di pratiche elencate dall’art. 23 del Codice del Consumo, che sono considerate sempre ingannevoli, senza che si debba accertare la mancata diligenza e l’attitudine a falsare il comportamento economico del Consumatore, sulle quali si è pronunciato, oltre all’AGCM, anche il Consiglio di Stato (Cons. Stato 14 aprile 2020 n. 2414).

Quali sono le pratiche commerciali “aggressive”? (art. 24 Codice del Consumo)

Una pratica commerciale aggressiva è una condotta invasiva che comporta pressioni, coercizione, molestie o indebito condizionamento e influisce in concreto sulla libertà di scelta del consumatore.

Essa può avere luogo sia nel corso del rapporto contrattuale, sia nella fase di costituzione del vincolo negoziale.

Le pratiche commerciali aggressive non sono necessariamente connotate dal ricorso alla violenza fisica o verbale, ma sono accomunate dal fatto che il consumatore si trova in situazioni di stress che diventano determinanti per la sua decisione.

Ad esempio, il provvedimento dell’AGCM 20303/09 ha sanzionato

  • una procedura onerosa e farraginosa per il rimborso del credito residuo dell’utenza telefonica da parte di una società che agiva condizionando il comportamento del consumatore che intendeva cambiare gestore;
  • la prassi di un noleggio auto di bloccare temporaneamente una certa somma di denaro sulla carta di credito del cliente a garanzia dei danni che l’auto avrebbe potuto subire, inducendo il cliente, per sottrarsi al blocco di denaro sulla propria carta di credito, all’acquisto di prodotti assicurativi accessori.

Cosa può succedere in caso di violazione dei divieti?

Ai sensi dell’art. 27 comma 2 del Codice del Consumo, modificato dall’art. 37 comma 1 lett. a) n. 2 della legge n. 238/2021, in vigore dal 1 febbraio 2022, ogni soggetto od organizzazione che ne ha interesse può fare istanza all’AGCM in caso di pratiche commerciali scorrette affinché l’Autorità ne inibisca la continuazione e ne elimini gli effetti.

L’AGCM può agire anche d’ufficio in forza di poteri investigativi, esecutivi e di richiesta di informazioni, e può ottenere dal professionista responsabile l’assunzione di impegni, imporne l’applicazione e la pubblicazione.

In casi di urgenza l’AGCM può disporre, con provvedimento motivato, la sospensione provvisoria delle pratiche commerciali scorrette.

Il professionista che ha attuato una pratica commerciale scorretta può assumere l’impegno di porre fine all’infrazione utilizzando un apposito modello disposto dall’AGCM.

Quando l’AGCM ritiene la pratica commerciale contraria alle norme del Codice del Consumo, ne vieta la diffusione se l’attività non è ancora stata portata a conoscenza del pubblico, o ne proibisce la continuazione, se la pratica è già iniziata.

Per ogni inottemperanza è prevista l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie, da pagare entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento dell’AGCM.

Contro le decisioni dell’AGCM è possibile ricorrere presso il TAR del Lazio per ottenerne l’annullamento, mentre il ricorso in appello si propone davanti al Consiglio di Stato.

Controlli a distanza: il punto tra privacy e diritto del lavoro

Lo Statuto dei lavoratori prevede il generale divieto di controlli a distanza dei dipendenti, ma, allo stesso tempo, all’art. 4, consente l’utilizzo, tra gli altri strumenti, di impianti audiovisivi a fini di controllo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per ragioni di tutela del patrimonio aziendale.

La materia è stata riformata – come noto – dal Jobs Act, che ha integrato le norme previgenti ed in particolare proprio l’art. 4 (al secondo comma) con l’introduzione di un riferimento ai controlli sugli strumenti impiegati per rendere la prestazione lavorativa e di registrazione degli accessi e delle presenze, a cui non si applicano i vincoli generali di cui al comma primo.

Di conseguenza, gli “strumenti” (tecnologici, per lo più) impiegati dal lavoratore per rendere la propria prestazione lavorativa – quali computer, tablet, cellulari, telepass – possono divenire fonte di controllo a distanza, da parte del datore di lavoro, anche senza il previo accordo con i sindacati o l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.

In proposito non è da trascurare anche la questione della liceità della geolocalizzazione sull’auto aziendale in uso ai dipendenti, che è stata affrontata, di recente, dalla giurisprudenza italiana (si veda da ultimo Corte d’Appello di Roma nella Sentenza n. 641/2021).

L’utilizzo degli strumenti di controllo a distanza è – in sostanza – tendenzialmente legittimo solo a determinate condizioni e nel rispetto di ben specifici vincoli e impostazioni, che andiamo di seguito a esaminare.

Videosorveglianza

Dal punto di vista giuslavoristico, il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali unitarie (“RSU”) o aziendali (“RSA”) devono sottoscrivere un accordo collettivo contenente la regolamentazione del funzionamento dell’utilizzo dell’impianto di videosorveglianza.

Se l’accordo non è raggiunto, o nel caso in cui in azienda non siano presenti RSU o RSA, il datore di lavoro deve rivolgersi all’Ispettorato del Lavoro territoriale per chiedere un’autorizzazione all’installazione dell’impianto, depositando un’istanza motivata. L’autorizzazione dell’ispettorato oppure l’accordo sindacale sono necessari anche se l’impianto entra in vigore nelle fasce orarie in cui l’azienda è vuota, ed è irrilevante che l’impianto installato non sia funzionante.

Dal punto di vista della privacy, sul tema, è previsto che il titolare del trattamento, in conformità con il principio di responsabilizzazione di cui all´art. 24 GDPR, debba valutare la conformità del trattamento che intende effettuare alla disciplina vigente, verificando il rispetto di tutti i principi in materia nonché la necessità di effettuare, in particolare, una valutazione di impatto ex art. 35 del GDPR oppure attivare la consultazione preventiva ai sensi dell´art. 36 del GDPR.

I dipendenti devono essere certamente portati a conoscenza dell’installazione dell’impianto grazie a un comunicato o a un cartello informativo (“informativa minima”) e anche grazie ad un’informativa estesa contenente l’indicazione e dati di contatto del titolare del trattamento e del Data Protection Officer (“DPO”), se presente, nonché le finalità del trattamento.

Nello stesso senso, anche l’impostazione e il direzionamento delle telecamere che formano l’impianto non può trascurare i principi di minimizzazione e limitazione del trattamento, pertanto ponendo grande attenzione a cosa, e soprattutto chi, viene ripreso (ad esempio, escludendo la pubblica via per quanto possibile e riducendo il campo di copertura alle sole parti dell’azienda utili alla finalità prevista).

Buona regola, infine, è quella di istruire per iscritto tutti i soggetti (interni o esterni, come la società che svolge la vigilanza diurna o notturna) dei vincoli e delle necessarie attenzioni alla riservatezza che essi devono porre nel visionare, dal vivo come in remoto, le immagini raccolte dall’impianto di videosorveglianza.

Gps sui veicoli in uso ai dipendenti

Nelle ipotesi in cui la possibilità di individuare in un dato momento la posizione dei veicoli, e, di conseguenza, dei lavoratori, mediante sistemi di localizzazione, possa rivelarsi utile per soddisfare esigenze organizzative, produttive, nonché per esigenze di sicurezza sul lavoro, devono essere rispettate sia la disciplina sulla protezione dei dati personali, sia la normativa a tutela dei lavoratori, tenuto conto anche che la localizzazione dei veicoli potrebbe comportare una forma di controllo a distanza della loro attività.

L’esplicito richiamo effettuato dall’art. 4 co. 3 dello Statuto dei lavoratori alle disposizioni di cui al Codice Privacy (ora da intendersi, naturalmente, anche al GDPR), in particolare a quello relativo all’obbligo di rilascio dell’informativa, classifica, di fatto, l’attività di geolocalizzazione come trattamento dei dati personali, qualora la rilevazione dei dati dal dispositivo consenta di raccogliere informazioni sui singoli dipendenti – identificati o identificabili – e lo sottopone a tutte le relative disposizioni.

Il GDPR introduce, a seguire, una serie di principi generali, che costituiscono la base di riferimento per la realizzazione di ogni tipologia di trattamento di dati personali realizzata dal titolare del trattamento, compresa la rilevazione della posizione del dipendente in orario di lavoro mediante l’utilizzo di dispositivi GPS che possano integrare gli estremi del controllo a distanza e che muovono dai principi di “privacy by design” e “privacy by default”.

Per il conseguimento di ciascuna delle finalità legittimamente perseguite dal datore di lavoro, che riveste la qualità di titolare del trattamento, possono formare oggetto di trattamento, mediante sistemi opportunamente configurati, solo i dati pertinenti e non eccedenti: tali possono essere, oltre all’ubicazione del veicolo, la distanza percorsa, i tempi di percorrenza, il carburante consumato, la velocità media del veicolo.

Nel rispetto del principio di necessità, inoltre, la posizione del veicolo non deve essere monitorata continuativamente dal titolare del trattamento, ma solo quando ciò si renda necessario per il conseguimento delle finalità legittimamente perseguite.

Geolocalizzazione di smartphone, tablet e dispositivi mobili

Il principio di necessità, ai sensi del quale la posizione del veicolo può essere monitorata solo quando ciò si renda indispensabile per il perseguimento delle finalità previste, si applica allo stesso modo alla localizzazione dei dispositivi mobili in possesso dei dipendenti.

Bisogna considerare, in questo caso, anche che, ad esempio, lo smartphone è, per le sue caratteristiche, inevitabilmente destinato a “seguire” la persona che lo possiede, indipendentemente dalla distinzione fra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro.

Il Garante ha però chiesto, in successivi provvedimenti sul tema, a maggiore tutela dei lavoratori, di posizionare sul dispositivo un’icona che indichi che la localizzazione è attiva e di configurare il sistema in modo tale da oscurare la posizione geografica dei dipendenti decorso un dato periodo di inattività dell’operatore sul monitor della centrale operativa.

I dati raccolti dal sistema possono essere consultati dagli addetti alla centrale operativa e dalla direzione informatica della società muniti di apposite credenziali e profili autorizzativi, in particolare per l’estrazione dei dati.

A ulteriore tutela dei dipendenti deve essere escluso l’utilizzo dei dati per finalità di controllo dei lavoratori o per scopi disciplinari. La società deve fornire, in ogni caso, ai dipendenti, un’idonea informativa che consenta l’esercizio dei diritti.

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Brexit e privacy: cosa è cambiato, cosa può ancora cambiare

Dopo un lungo e dibattuto iter, il 31 gennaio 2020 il Regno Unito ha definitivamente lasciato l’Unione Europea.

Da tale momento ha preso il via un periodo di transizione, cd. bridging mechanism, finalizzato a consentire (da un lato) il graduale adeguamento dell’ordinamento britannico alla nuova situazione e (dall’altro) una transizione ordinata dei rapporti economici, amministrativi e giuridici tra Unione Europea e United Kingdom.

Tra i vari hot topics che hanno caratterizzato il caso ed il processo di realizzazione della Brexit, importantissimo è indubbiamente quello relativo alla protezione dei dati personali dei cittadini europei e alla possibilità che questi vengano trasferiti verso Paesi terzi.

La questione, già di per sé rilevante essendosi concluso definitivamente il processo di uscita dall’Unione (il Regno Unito è oggi ufficialmente e a tutti gli effetti un Paese terzo), diventa ancora più delicata alla luce delle future riforme che il Governo di Londra ha dichiarato di voler attuare.

Evoluzione della normativa privacy tra UE e UK

Per meglio comprendere i termini della faccenda è necessario passare in rassegna l’evoluzione normativa che ha caratterizzato negli ultimi anni – dall’inizio del processo fino al completamento della Brexit – l’ordinamento giuridico britannico dal punto di vista della data protection.

Prima della rottura definitiva con l’UE, le fonti normative vigenti in Gran Bretagna in materia di protezione dei dati erano due: una di matrice europea, Regolamento 2016/679 (“GDPR”), e una interna, il Data Protection Act del 2018 (“DPA”).

Nel 2018 poi, con l’intento di gettare solide basi per il cambiamento, il Parlamento inglese ha emanato l’European Union (Withdrawal) Act con un duplice scopo: abrogare l’European Communities Act del 1972 (con cui il Regno Unito aderiva alle tre comunità europee della CEE, CECA ed Euratom), e fornire una base giuridica affinché il diritto nazionale derivato dall’UE e la legislazione europea direttamente applicabile-incorporati nel diritto interno britannico in virtù del medesimo atto- potessero essere modificati.

Risultato di tale operazione “sartoriale” è stata la nascita del cd. retained EU law: un diritto comunitario modellato “su misura” alle esigenze e prospettive di uno Stato che, pur rivendicando indipendenza rispetto alle istituzioni europee, continua entro certi limiti a rispettarle (è stato infatti previsto che il retained law venga pur sempre interpretato dai giudici interni alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea e dei principi fondamentali dell’Unione, in vigore prima dell’uscita definitiva dell’UK dall’Unione).

Un esempio di legislazione secondaria, emanata in virtù dell’European Union (Withdrawal) Act e capace di modificare il retained law, è rappresentato dal “Data Protection, Privacy and Electronic Communications (Amendments etc.) (EU Exit) Regulations, 2019 (DPPEC Regulations). Tale documento, a far data dal 1° gennaio 2021, ha modificato sia il DPA nazionale che il recepimento della normativa GDPR europea, creando così quello che oggi è conosciuto come ”UK GDPR”.

Brexit: cosa cambia in materia di trasferimento dei dati extra-UE

Il trasferimento dei dati verso Paesi terzi è oggetto apposita regolamentazione da parte del GDPR, regolamentazione – a questo punto –  applicabile a tutti gli effetti anche al Regno Unito.

I meccanismi previsti dal capo V (art. 44 e ss.) rispondono all’esigenza di assicurare alle persone fisiche coinvolte il medesimo livello di protezione offerto del Regolamento, e sono (in alternativa tra loro):

  • decisione di adeguatezza ex art. 45 GDPR: il trasferimento è ammissibile sulla base di una decisione di adeguatezza della Commissione Europea che stabilisca che il paese terzo garantisce una protezione adeguata (equivalente cioè a quella offerta dal GDPR stesso). I criteri utilizzati dalla Commissione per l’adozione della decisione sono vari, tra cui figurano lo stato di diritto del paese terzo e il suo rispetto nei confronti dei diritti fondamentali e delle libertà degli individui;
  • garanzie adeguate ex art. 46 GDPR: in mancanza di una decisione di adeguatezza, il titolare del trattamento può trasferire i dati verso un paese terzo soltanto nel caso in cui siano state fornite garanzie adeguate, a condizione che gli interessati dispongano di diritti azionabili e mezzi di ricorso effettivi. Esempio di tali garanzie sono le Standard Contractual Clauses (SCC) approvate dalla Commissione Europea secondo la procedura d’esame di cui all’art. 93 (e contenute nella loro versione più aggiornata nella Direttiva 2021/914);
  • norme vincolanti d’impresa, ex art. 47 GDPR, per i gruppi che le hanno stipulate con l’Autorità di controllo;
  • deroghe, ex art. 49 GDPR: nel caso in cui non dovessero risultare utilizzabili gli strumenti previsti dagli articoli precedenti, in via residuale il trasferimento può comunque essere lecito perché, a titolo esemplificativo, il soggetto interessato ha prestato espressamente il consenso o perché il trasferimento è necessario per l’esecuzione di un contratto.

Come extrema ratio – laddove non fossero applicabili le deroghe specificamente elencate – l’art. 49 stabilisce che il trasferimento è pur sempre lecito se fondato sulla deroga di carattere generale del trasferimento non ripetitivo per il perseguimento di interessi legittimi cogenti dell’esportazione dei dati su cui non prevalgano gli interessi e le libertà degli interessati. Non si tratta di semplici interessi legittimi del titolare ma di interessi essenziali, come ad esempio l’esigenza di proteggere la propria organizzazione o i propri sistemi da un danno grave ed immediato.

Per gestire la questione del trasferimento dei dati verso il Regno Unito, la Commissione Europea ha emanato due decisioni di adeguatezza, una relativa al GDPR e una relativa al LED (Law Enforcement Directive, 2016/680), entrambe facenti parte del più ampio TCA (Trade and Cooperation Agreement), l’accordo volto a regolare gli scambi commerciali UE-UK.

La peculiarità di tali decisioni è la previsione di una “sunset clause”, (un unicum nella storia delle decisioni ex art. 45 GDPR) che limita l’adeguatezza della decisione a quattro anni (la scadenza è prevista al 27 giugno 2025), riservando alla Commissione stessa il potere di monitorare e verificare attivamente l’assetto in materia di privacy garantito dal diritto britannico.

In altri termini l’Unione, pur non rinunciando aprioristicamente alla possibilità di “avere a che fare” con il Regno Unito, si riserva la possibilità di cambiare idea nel caso il cui dovessero cominciare ad essere attuate riforme in grado di minare quel grado di protezione adeguato che il GDPR intende tutelare e che richiede per legittimare il trasferimento dei dati.

La decisione della Commissione appare quanto mai saggia soprattutto alla luce del fatto che la Gran Bretagna sta vivendo un periodo di potenziale (e audace) cambiamento.

Possibili scenari

Tra le molte proposte di riforma in grado di allontanare Londra dalle posizioni europeiste – a titolo esemplificativo, estendere l’utilizzo del legittimo interesse come base giuridica e facilitare il trattamento dei dati da parte di enti pubblici e privati per finalità di interesse pubblico (tra cui anche la lotta al covid-19)- , la più preoccupante riguarda l’ampliamento della lista dei paesi ai quali il Regno Unito intende concedere l’adeguatezza per il trasferimento dei dati, dal momento che tra i nuovi stati figurerebbero anche gli Stati Uniti.

Una riforma in tal senso potrebbe seriamente minare la stabilità della decisione di adeguatezza emessa, con ricadute su due diversi ed egualmente importanti ambiti.

In primo luogo, un allontanamento della legislazione UK dai principi fondanti del GDPR porterebbe forzatamente a rendere più difficoltosi i trasferimenti “diretti” di dati tra Europa e Gran Bretagna, in quanto le tutele accordate dal Regolamento ai cittadini europei potrebbero venire meno al mutare dell’assetto dell’ordinamento inglese.

Non è solo la normativa specialistica in materia di data protection ad avere un impatto diretto sulla decisione di adeguatezza emessa dalla Commissione UE: le stesse tutele generali accordate ai cittadini dallo stato, e lo stesso Stato di diritto, potrebbero comportare una violazione frontale della privacy del singolo.

Si pensi, ad esempio, al tema degli ordini esecutivi diretti con cui le forze di polizia accedono ai dati, in potenziale violazione dei diritti costituzionalmente tutelati – almeno, nell’Unione Europea – di riservatezza e libertà.

Proprio in quest’ottica, ed alla luce della caduta del EU-US Privacy Shield (il sistema di autocertificazione “fatto fuori” dalla sentenza Schrems II), al fine del trasferimento dei dati verso gli Stati Uniti, ad oggi – per qualsiasi business operante in UE – non è più sufficiente il solo riferimento alle Clausole Contrattuali Tipo della Direttiva 2021/914, la cui struttura è stata ricalcata dall’International Data Transfert Agreement approvato dal Garante inglese (ICO).

Se davvero il Regno Unito dovesse aprire le porte ai liberi trasferimenti di dati verso gli Stati Uniti ad esempio mediante l’emissione di una autonoma decisione di adeguatezza, allora si presenterebbe un grosso problema, dal momento che potrebbe di fatto venire elusa la fase dei controlli – particolarmente rilevanti – oggi imposti dal GDPR e dalla sua interpretazione fissata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

L’eventuale revoca della decisione di adeguatezza comprometterebbe insomma, con tutta probabilità, il funzionamento dell’accordo sugli scambi commerciali (TCA) e aprirebbe una nuova frontiera nel settore dei trasferimenti internazionali per le aziende operanti in UE.

Gli occhi dell’Unione – e in particolare della Commissione – rimangono così puntati oltremanica in attesa degli sviluppi prospettati dal governo di Londra. E noi con loro.

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